Progetto Campalano

Il seguente più che un articolo è una vera e propria Tesi di Laurea discussa dal Dott. Guglielmo Strapazzon presso l’Università di Padova. Come si può dedurre dal titolo è un’interessante studio sul paesaggio con indagini ricognitive sul campo e l’impostazione di un archivio informatico su base GIS per la catalogazione dei dati raccolti.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN ARCHEOLOGIA
CURRICULUM STORICO – ARCHEOLOGICO
TESI DI LAUREA
PROGETTO CAMPALANO:
L’ARCHEOLOGIA DEI PAESAGGI
TRA RETI INSEDIATIVE E PALEOAMBIENTE
RELATORE: PROF. GIAN PIETRO BROGIOLO
CORRELATORE: DOTT. FABIO SAGGIORO
LAUREANDO: STRAPAZZON GUGLIELMO
Indice
1. INTRODUZIONE
2. METODOLOGIA APPLICATA NEL PROGETTO
CAMPALANO
2.1 Archeologia del paesaggio: la presenza umana e il
paleoambiente
2.2 La metodologia ( Verso un paradigma condiviso )
2.3 Metodologia applicata nel Progetto Campalano
3. L’AREA INDAGATA
3.1 Limiti geografici e scientifici
3.2 Inquadramento geomorfologico
3.3 L’indagine geomorfologica
3.4 Individuazione delle “anomalie paleoidrografiche”
4. LA RACCOLTA DEI DATI
4.1 La ricognizione: due possibili livelli.
4.2 Visibilità archeologica: un approccio al problema
4.3 Le Schede di UT, dal campo all’informatizzazione
4.4 Il database informatico
4.5 Tipologizzazione delle componenti insediative
5. I SITI ARCHEOLOGICI INDIVIDUATI
6. I MATERIALI E LA RICOGNIZIONE
6.1 Agenti atmosferici e frammentazione
6.2 Lo stato degli studi di alcune classi ceramiche
7. L’ASSE VIARIO OSTIGLIA-VERONA
8. CONCLUSIONI
8.1 La rete insediativi dalla romanizzazione agli albori della
Tarda Antichità
8.2 La crisi dell’insediamento nella Tarda Antichità
8.3 L’altomedioevo
9. BIBLIOGRAFIA
1. INTRODUZIONE
L’elaborato qui esposto riguarda un progetto di studio del paesaggio svolto nel corso del 2004-2005 in un’area della bassa pianura veronese. Questo lavoro è nato e si è inserito in un progetto di scala nettamente più vasta e con obiettivi di ricerca più completi ed ampi, che è ancora in corso di svolgimento nella suddetta zona. Esso spazia all’interno di un cospicuo [//] lembo della Pianura Padana delimitato ad Ovest dal fiume Mincio, ad Est dall’Adige e a sud dal Po. L’attenzione è stata posta in particolar modo sul settore sud-occidentale di questo territorio il cui elemento caratterizzante è la presenza di un reticolo idrografico particolarmente complesso, tipico di queste aree di bassa pianura. Oltre che dalle “valli” (alvei) di fiumi a grande portata con tracciato meandriforme come il Tione, il Tartaro e altri di dimensioni più ridotte ( Menago e Tregnone), questo territorio è segnato dalle caratteristiche tracce dei molti paleoalvei con direzione Nord-Ovest Sud-Est e di numerosi fossati e corsi minori: essi ricordano lo sforzo antropico per la bonifica e regimentazione idrologica di tali aree. All’interno di questo particolare contesto si è tentato di ricostruire non solo l’evoluzione diacronica dell’insediamento e delle dinamiche economico-sociali del territorio ma anche le variazioni del paleoambiente. I risultati dovuti a questo approccio risultano particolarmente “fruttuosi” in quanto i dati ricavati dai vari ambiti dialogano tra loro e si compenetrano generando nuove prospettive da cui osservare l’evoluzione del paesaggio. Riguardo lo studio delle organizzazioni insediative si è dato largo spazio all’esame delle incisive trasformazioni avvenute nel corso dell’epoca romana. Esse, infatti, costituiscono un punto di partenza insostituibile per i successivi sviluppi delle dinamiche del popolamento. Dunque, anche se lo scopo privilegiato di tale ricerca riguardava l’epoca medievale, si è dovuto giocoforza affrontare diacronicamente la presenza umana in quest’area, al fine di raggiungere una maggior completezza.
Con tali premesse tra il 2004 e il 2005 è iniziato un lavoro che si poneva come scopo quello di indagare un’area di contenute dimensioni all’interno di questo territorio. Il fine era quello di comprendere l’articolazione e l’evoluzione delle reti insediative del territorio non limitandosi all’individuazione e catalogazione delle emergenze archeologiche, ma raccogliendo, per quando possibile, i dati relativi all’ambiente col quale esse, epoca dopo epoca, si sono rapportate. Un secondo obbiettivo era quello di rispondere a precisi interrogativi di carattere storico: diversi indizi, infatti, facevano supporre che l’area indagata avesse subito con minore intensità il passaggio tra l’epoca romana e la tarda antichità, fatto che si scontrava con il trend dell’abbandono dei siti d’età imperiale nell’area del Tartaro.
Concludendo, credo sia fondamentale la chiave di lettura che deve essere adottata nell’affrontare quanto segue: la particolare attenzione con la quale è stata descritta la metodologia applicata, che può risultare eccessiva all’interno di una tesi di laurea triennale, si deve alla volontà di chi scrive di portare il lettore a comprendere l’approccio adottato nello svolgere la ricerca. Solo partendo da queste premesse, infatti, è possibile assumere un atteggiamento adeguato nella lettura dei dati esposti. Il lettore, quindi, potrà comprendere che quanto qui esposto rappresenta un punto di arrivo, in quanto tutti i dati relativi all’area delimitata sono stati raccolti attraverso il survey, la fotointerpretazione, lo studio della cartografia storica, lo spoglio delle fonti esistenti, la raccolta di dati sulla geomorfologia ( provenienti sia dalla bibliografia e dalle carte tematiche, sia recuperati tramite l’indagine diretta del territorio). Tuttavia l’archiviazione di queste informazioni è anche un punto di partenza: sebbene, infatti, l’interpretazione dei dati sia già iniziata e a suo modo abbia raggiunto delle conclusioni allo stesso tempo una vasta mole di dati vengono qui presentati in uno stato di quiescenza, in quanto il loro potenziale informativo non è stato sfruttato in tutta la sua pienezza. La sistematicità con cui essi sono stati recuperati e archiviati ne permetterà un utilizzo futuro e lo strumento che ne consente l’elaborazione è lo stesso che li ospita: il GIS. Questo approccio nasce dalla consapevolezza che il punto di forza dell’archeologia dei paesaggi non è tanto dato dalle conclusioni e dalle risposte che essa fornisce, ma dal susseguirsi degli interrogativi alla cui soluzione essa tende, l’origine dei quali va rintracciata nella naturale predisposizione della materia a far dialogare le diverse discipline che la compongono.
2. METODOLOGIA APPLICATA NEL PROGETTO CAMPALANO
2.1 Archeologia del paesaggio: la presenza umana e il paleoambiente
E’ necessario, innanzitutto, definire con chiarezza cosa si intenda ottenere in uno studio di archeologia del paesaggio. Una risposta può essere: comprendere le dinamiche della presenza umana in un dato territorio.
Da tale definizione si comprende che l’interesse centrale dell’archeologia, in quanto tale, è la comprensione delle vicende umane. Negli ultimi decenni, però, si continua a porre sempre più attenzione alle modalità con cui l’uomo si rapportava all’ambiente che lo circondava. Questo nuovo atteggiamento nasce da una fondamentale presa di coscienza, che ha evidenziato come la presenza umana non possa essere compresa appieno se non viene considerata all’interno dell’ambiente in cui essa si è sviluppata. Tale consapevolezza ha moltiplicato i contatti tra archeologi e studiosi di altre discipline che abbiano come scopo la comprensione del paleoambiente: ciò ha portato alla nascita di innumerevoli studi di archeologia paleoambientale, geoarcheologia e paleobotanica. Se consideriamo la natura “estensiva” di queste discipline non stupisce il fatto che l’archeologia del paesaggio, forse maggiormente di altri campi dell’archeologia, si sia rivelata particolarmente sensibile a questi dibattiti. Il risultato è evidente nei progetti che vedono la luce in questi anni, i quali non mancano di includere paragrafi sull’ambiente, sulla geomorfologia e diverse considerazioni sul paleoambiente. Tale approccio, tuttavia, non è la norma e le modalità con cui viene affrontato non seguono delle linee guida comuni. E’ opportuno notare, inoltre, come l’attenzione a questi aspetti si debba solitamente all’influenza che essi possono avere nel rinvenimento delle emergenze archeologiche ( ad esempio visibilità, presenza di coltri alluvionali che coprono i siti ).
Partendo da tali premesse nel presente progetto una particolare attenzione è stata posta nel raccogliere informazioni sulla situazione paleoambientale.
2.2 La metodologia ( Verso un paradigma condiviso )
Considerando i presupposti sopraesposti si è deciso di condurre la ricerca seguendo due direttrici che pur avanzando parallelamente, non hanno smesso di “dialogare” l’una con l’altra nel procedere del lavoro. La prima ha avuto come scopo la raccolta e l’elaborazione di dati prettamente “archeologici”( e può essere definita efficacemente come “archeologia delle reti insediative”).; la seconda è stata indirizzata a fornire elementi utili a comprendere l’evoluzione del ( paleo )ambiente.
Seppure caratterizzate da questo duplice approccio, le varie fasi della ricerca risultano facilmente comparabili a quelle di molti altri progetti di archeologia del paesaggio. Particolarmente vicina alle problematiche sopra esposte risulta la metodologia applicata nel progetto “Carta Archeologica della Provincia di Siena. Per questo motivo e per la chiarezza con cui sono stati descritti i vari passi di questo lavoro, ho deciso di raccogliere l’invito in essa esposto, che esortava a condurre le ricerche di archeologia del paesaggio all’interno di un “paradigma condiviso”. Tutto ciò, lontano dal diventare un modello rigido, che porterebbe all’impoverimento della disciplina, deve essere adattato agli obbiettivi e alle peculiarità del progetto che si vuole svolgere e deve far dialogare al suo interno i contributi più lungimiranti che verranno di volta in volta apportati allo studio del paesaggio.
In tale ottica lo schema che segue trae volutamente spunto da alcuni contributi pubblicati nel 1999 da Marco Valenti e Riccardo Francovich. Sono state fatte le dovute modifiche trattandosi di un progetto con estensione e condizioni evidentemente differenti. Alcuni punti non sono stati ribaditi in quanto ormai assunti nel metodo.
2.3 Metodologia applicata nel Progetto Campalano
a. Obiettivo “archeologico” dell’indagine
Scopo della ricerca è quello di comprendere le dinamiche della presenza umana nell’area prescelta proponendo un’ipotesi ricostruttiva. I limiti cronologici entro i quali si concentra l’analisi prendono in considerazione un arco di tempo che, partendo dall’età repubblicana giunge agli inizi del Basso Medioevo. Tale scelta ovviamente non escluderà la raccolta di dati circa epoche anteriori o successive a quelle sopraccitate, ma eventuali elaborazioni delle informazioni raccolte verranno rimandate a specialisti dell’ambito.
Come accennato nell’introduzione, questo progetto nasce anche per rispondere ad alcuni precisi interrogativi di carattere storico sviluppatisi nel corso di precedenti studi: comprendere le trasformazioni tra la media Età Imperiale e la Tarda Antichità, e i successivi sviluppi dall’Alto Medioevo al Pieno Medioevo. Grazie alle informazioni raccolte si riuscirà a colmare la mancanza di informazioni dovuta all’assenza di fonti scritte sull’area fino all’XI secolo.
b. Obiettivo politico
Trattandosi di un’indagine sistematica e a copertura totale, le informazioni assumeranno, sia che si tratti della puntuale localizzazione delle emergenze archeologiche, sia dell’individuazione, tramite l’elaborazione dei dati ottenuti, di ipotetiche aree a “rischio archeologico”, la forma di carte per la tutela del territorio, che nelle mani delle istituzioni competenti dovrebbero diventare utile strumento per una pianificazione territoriale archeologicamente sostenibile. Questo sarà possibile in quanto tutte i dati raccolti ed elaborati nella ricerca saranno inseriti in un GIS e quindi georeferenziati e “inseriti” nella CTR ( carta tecnica regionale ) dell’area indagata.
c. Metodo di indagine
Un metodo che risulta particolarmente utile al fine di comprendere le reti insediative si basa sulla creazione di modelli. Con questo termine si intende una “rappresentazione ideale del mondo reale”: esso viene “progettato per dimostrarne alcune proprietà”. Con tale strumento è possibile, infatti, confrontare “tendenze e meccanismi” che caratterizzano fasi della presenza umana in una certa area con quelli riscontrati in altri progetti. I modelli vengono costruiti basandosi sia su “tesi descrittive”, le quali analizzano nella sincronia le diverse fasi insediative, che su “tesi esplicative”, che considerano le fasi nel loro succedersi, nel loro trasformarsi ( diacronicamente ). Grazie ai modelli è possibile, quindi, creare delle ipotesi storiche. Ovviamente tesi derivanti da molti dati, corretti dalle distorsioni alle quali possono essere soggetti, rispecchieranno più fedelmente la realtà e, quindi, modelli costruiti su progetti di vaste dimensioni possono essere utili a ricerche che non dispongono di una quantità di informazioni tale da crearne di validi. Partendo da questa considerazione si è deciso che per il progetto Campalano era consigliabile, una volta individuate ed elaborate le evidenze archeologiche, metterle a confronto con modelli creati all’interno di studi di più ampia portata.
Al fine di rendere più aderenti alle peculiarità della zona indagata queste “rappresentazioni ideali” delle reti insediative, si è scelto di mitigare la schematica freddezza dei modelli rapportandoli alle ipotesi ricostruttive del paleoambiente. In questo modo si sono, inoltre, volute sfruttare appieno le potenzialità di un progetto che, studiando una porzione di territorio ridotta, non può che offrire poche informazioni sulle grandi problematiche storiche legate alle vicende umane, ma che tuttavia offre la possibilità di poter scendere nel dettaglio e porsi come un esempio di caso studio in questo senso.
d. Impostazione preliminare dell’indagine
Un primo approccio con l’area da indagare obbligatorio al fine di comprenderne il potenziale archeologico :
– Si è partiti innanzitutto con il delimitare precisamente la zona indagata. Sulle motivazioni che hanno guidato alla scelta dell’area e a quella dei confini, peraltro condizionata dalla viabilità moderna, si rimanda al capitolo 3.
– Sia in fase progettuale che durante tutto lo svolgersi della ricerca sono sempre state valutate eventuali fonti da cui trarre informazioni, al fine di individuare e comprendere le “stratificazioni” in esso presenti (geologia e morfologia, habitat rinvenimenti noti e informazioni d’archivio).
Sono state, innanzitutto, cercate le eventuali evidenze ( emergenze ) monumentali. Gli unici edifici potenzialmente utili sono stati individuati in due chiese. S.Gregorio di Campalano e S. Pietro a Nogara ( Caselle ). La prima, risalente agli inizi del 1500, si trova al centro dell’area indagata. Essa risulta degna di nota per la presenza sulla facciata di quattro steli funerarie di età augustea con un busto incavato nella parte superiore. La seconda non si trova all’interno dell’area ricognita, ma dato che è stato ipotizzato che il sito dell’attuale edificio possa coincidere con il luogo dove sorgeva la cappella fiscale di S. Pietro, più volte citata in documenti di IX-X secolo, lasciava trasparire una certa rilevanza.
Dopo tali osservazioni sono state considerate le potenzialità informative di altre tipologie di “fonti”. Preliminarmente all’inizio del progetto era già nota la grande mole di rinvenimenti di siti archeologici avvenuti in queste zone della pianura, ciò è testimoniato dalla proliferazione di gruppi archeologici e dalle ricerche di studiosi che avevano operato in aree limitrofe a quella interessataqueste condizioni ponevano delle ottime premesse per un intervento di archeologia estensiva. Nella zona da indagare erano state inoltre precedentemente effettuati dei sopralluoghi con degli appassionati della zona , e con l’ispettore onorario Campagnolo Mauro, grazie alle indicazioni dei quali era stato possibile individuare la quasi totalità dei siti di epoca romana presenti.
Un altro tipo di fonti sono infine tutte quelle tracce, o segni di segni e tracce di tracce, sia nel vero senso del termine che in senso lato, desumibili dalle foto aeree, dalla cartografia storica e dalle carte geomorfologiche ( vedi capitolo 3 ).
e. Tecnica di ricerca
La raccolta dei dati è stata possibile grazie a due differenti procedure analitiche: l’aereofotointerpretazione e la ricognizione sistematica a copertura totale degli arativi. Lo studio delle foto aeree è stato penalizzato dalla possibilità di disporre di un numero ridotto di voli, oltretutto non fisicamente disponibili, in quanto file in formato jpeg. Ciò non ha reso possibile l’analisi delle stesse tramite stereoscopio e la risoluzione non ottimale dei files ha ridotto sensibilmente le potenzialità dello strumento. Si è comunque scelto di studiare il materiale disponibile concentrandosi sulle anomalie più evidenti, e quindi meno penalizzate dalla risoluzione , che in quest’area sono rappresentate dalle nette variazioni cromatiche riferibili agli elementi paleoidrografici. Accanto a queste analisi sono state effettuate le consuete ricognizioni, finalizzate sia al “censimento” dei reperti archeologici portati in superficie dalle pratiche agricole e all’individuazione delle emergenze monumentali presenti ( in particolar modo elementi architettonici antichi inglobati in costruzioni moderne ), ma anche, parallelamente all’aereofotointerpretazione, al raccogliere informazioni su eventuali paleoalvei.
3. L’AREA INDAGATA
3.1 Limiti geografici e scientifici
La motivazione che ha portato alla scelta dell’area da indagare è stata inizialmente determinata dal rispondere ad alcune questioni di carattere meramente storico, ovvero definire le dinamiche della presenza umana in un periodo tra III – IX secolo d.C., che nella zona della Bassa Pianura fu caratterizzato dalla crisi del sistema insediativo che si era sviluppato nel corso della presenza romana sul territorio. In realtà questo obiettivo, nel concretizzarsi del progetto, è divenuto più che altro un pretesto per un completo e attento esame dell’evoluzione sia della presenza umana, seppur entro alcuni limiti cronologici, sia per quanto possibile di quella ambientale. Tali sviluppi hanno condizionato la scelta dei confini dell’area esaminata. In un primo momento essa è stata individuata piuttosto arbitrariamente:
? a nord la s.s. Padana Inferiore, presso la località Ecce Homo,
? a est via Le Pezzone, comprendendo anche loc. La Pezza, e seguendo la via com. Centimina fino al confine amministrativo del comune di Nogara,
? a sud la condotta che delimita il confine amministrativo del comune di Nogara ,
? a ovest la linea ferroviaria Verona-Bologna.
Quest’area è stata indagata con ricognizioni sistematiche tra ottobre e novembre 2004.
Tra marzo e aprile 2005 sono state effettuate ricognizioni puntuali su alcuni siti, oltre che ad una prospezione geofisica. Dopo alcune valutazioni sui dati raccolti nel 2004 si è deciso, inoltre, di ampliare l’area da indagare verso ovest, in direzione del fiume Tartaro. A causa della poca accessibilità dovuta all’urbanizzazione e alla presenza di cantieri per l’approntamento della linea ferroviaria dell’alta velocità non si è però indagata un’area pur promettente a livello archeologico, in quanto limitrofa alla Chiesa di S.Pietro, posizionata tra Caselle e la linea Bologna Verona e confinante a nord con Nogara.
I nuovi limiti, a causa dell’ampliamento ad ovest, risultano quindi essere:
– a nord l’abitato di Nogara,
– a est Caselle e l’area ricognita nel 2004,
– a sud la condotta consorziale,
– a ovest il fiume Tartaro.
Come si potrà notare più precisamente sul supporto GIS, o su un qualsiasi supporto cartografico, questi limiti sono stati scelti per comodità e corrispondono a infrastrutture moderne. Un vincolo che sfortunatamente non è stato possibile valicare è stato quello dei limiti amministrativi comunali, che rappresentavano anche il limite posto dalle autorizzazioni per le ricognizioni.
3.2 Inquadramento geomorfologico
L’area indagata si trova all’interno della media pianura idromorfa, compresa tra l’alta e la bassa pianura veronese. A nord troviamo l’”alta pianura”, una vasta spianata proglaciale ( il sandur ) , modellatasi tra 30.000 e 12.000 anni B.P., ad opera degli scaricatori del ghiacciaio dell’Adige. Qui gli studi geomorfologici hanno individuato alvei con disposizione a “canali intrecciati” le cui direzioni variano da N-S a NNW-SSE. Tali alvei si presentano in tre situazioni:
? alvei abbandonati, che non ospitano rilevanti corsi d’acqua ;
? alvei sovradimensionati rispetto alle capacità idrauliche dei corsi d’acqua che attualmente li percorrono;
? alvei sede di corsi d’acqua con capacità idrauliche adeguate, sufficienti cioè ad aver modificato e scavato gli alvei sia per deposizione che per erosione ( es. il Tartaro a monte della confluenza con il Piganzo ).

Figura 3 – Carta Geomorfologica del Veneto.
A sud troviamo la “bassa pianura”, caratterizzata dalle Valli Grandi Veronesi, con fasce fluviali depresse e zone a deflusso difficoltoso. In questo settore vallivo risultano particolarmente evidenti le tracce dei paleoalvei a corso meandriforme e i segni lasciati dai vari interventi di bonifica delle zone paludose che dall’epoca romana sino al XIX secolo hanno interessato queste zone. L’area indagata è composta dai depositi fluviali della pianura alluvionale recente e solo nel limite occidentale dai depositi mobili dell’alveo di un fiume attuale: il Tartaro ( Figura 3 ). In superficie i terreni risultano generati da alluvioni prevalentemente limose nella quasi totalità dell’area tranne in corrispondenza di paleo-dossi riferibili a alvei di fiumi ormai inattivi, dove il terreno si presenta limoso-sabbioso. Differentemente in prossimità degli alvei dei corsi d’acqua attivi i terreni si presentano torbosi e con elevato contenuto di materiale organico.
3.3 L’indagine geomorfologica
L’indagine geomorfologia è stata basata su due tipi di sorgenti informative:
? la carta geomorfologia del Veneto ( scala 1:250.000 ) ( Figura 3 ) e gli studi sulla geomorfologia di aree limitrofe;
? la fotografia aerea;
La prima categoria di fonti aveva il grosso limite di una scala troppo bassa e quindi non abbastanza descrittiva dell’area in esame. Si è tentato di rimediare a tale carenza recuperando informazioni utili su aree che, essendo limitrofe, presentavano alcune caratteristiche simili e, soprattutto, tramite il recupero di nuovi dati dalle fotografie aeree.
Gli scopi principali dell’esame della geomorfologia dell’area sono stati due:
– valutazione dell’impatto che gli elementi di carattere naturale avrebbero potuto avere sui rinvenimenti archeologici ( individuazione degli elementi di carattere naturale che potessero influenzare i rinvenimenti archeologici );
– recupero di dati sulla situazione geomorfologica del passato.
Il primo punto è indispensabile in una ricerca che si basa specialmente dai dati ricavati da ricognizioni di superficie. E’ risaputo, infatti, che questa tipologia di informazioni è soggetta a molteplici distorsioni; uno dei momenti fondamentali di un progetto che ne faccia utilizzo deve essere ,dunque, la correzione di tali distorsioni. Nel nostro caso era noto che la Media e Bassa Pianura Veronese erano soggette a una vivace situazione idrografica, anche a nord del settore delle Grandi Valli Veronesi. Con tali premesse si è considerato opportuno valutare il rischio di effettuare indagini su un territorio nel quale non fosse stato possibile verificare le tracce archeologiche o che le avesse restituite in modo “distorto”, in quanto, a nostra insaputa, esse fossero state ricoperte del tutto o in parte ( ad esempio se si fossero rinvenuti solo quei siti che in antico si trovavano in posizione più elevate, come i dossi fluviali ) da coltri alluvionali, la cui consistenza era tale da renderle troppo profonde per essere intaccate dalle operazioni agricole. Alcune risposte si sono avute dall’analisi dei siti già noti che, restituendo frammenti di materiali usati per le pavimentazioni ( tessere musive, esagonette in cotto ) o addirittura per le fondamenta, lasciavano trasparire l’assenza di depositi “occultanti”. Rimaneva, però, da verificare l’ipotesi di una eventuale posizione elevata di tali siti in passato, scelta che risulta peraltro molto comune nelle aree di pianura: maggiori informazioni si sono potute trarre solo con il contributo offerto dall’esame della micromorfologia e verificando i rapporti esistenti tra i paleoalvei, individuati grazie a questa e confrontandone i dati ottenuti a quello derivati dallo studio delle fotografie aeree, e i siti. Queste due sorgenti di informazioni sono state, inoltre, utilizzate per raggiungere il secondo scopo che ci eravamo posti nello studio della geomorfologia: obbiettivo privilegiato era l’individuazione dei paleoalvei, al fine di valutare il modo in cui la componente fluviale incideva sul paesaggio antico e da questo comprendere il rapporto che incorreva tra esso e l’uomo. A tal fine si è supposto che un’indicativa cronologia, sufficientemente precisa per i nostri fini, poteva essere ottenuta confrontando la posizione degli antici alvei dei corsi d’acqua con quella dei siti rinvenuti per un dato periodo: in tal modo sarebbe stato possibile verificare se alcuni siti si trovassero al loro interno, dandoci una datazione post-quem per il paleoalveo.
Tale approccio può quindi essere particolarmente positivo se lo si considera nell’ambito della mancanza di studi che ipotizzino, su basi scientifiche, ricostruzioni del paleoambiente: valutando la presenza e la tipologia di corsi d’acqua della zona possiamo, infatti, abbozzare delle ipotesi sull’antica condizione ambientale pur mancandoci quei preziosi dati paleobotanici ottenibili unicamente effettuando precisi studi su campionamenti di terreno effettuati in fase di scavo o su colonne polliniche.
3.4 Individuazione delle “anomalie paleoidrografiche”
Il passo successivo alla comprensione dei processi geomorfologici che hanno interessato l’intera area della media pianura è stato l’approfondimento dello studio nel dettaglio di quelli riguardanti l’area indagata. Per raggiungere questo fine sono state utilizzate due procedure di analisi. La prima diretta a creare una mappa per comprendere le variazioni altimetriche dell’area. Essa è stata realizzata all’interno del programma ArcMap, con la creazione di un modello digitale del terreno(DEM). Il DEM interessa un’area di 17 kmq circa ed è rappresentato da una matrice di circa mille punti georeferenziati ad ognuno dei quali è associata una quota altimetrica. Seguendo una definizione data da Forte questo modello è un DEM “cartografico”, in quanto “prodotto […] da punti sparsi attraverso programmi di interpolazione”, punti che nel nostro caso sono stati recuperati dalla CTR della regione Veneto. L’interpolazione è una funzione che ci permettere di predire i valori per una superficie, da un numero limitato di punti, creando un raster continuo. La scelta del metodo di interpolazione è ricaduta sull’Ordinary Kriging ( Circolare ), il più affidabile, secondo un’analisi comparativa compilata da Forte e il più largamente usato, seppur sulla sua validità restano aperte alcune problematiche . Il modello così ottenuto è stato visualizzato mediante una scala di colori ( Figura 4 ).
Credo sia necessario sottolineare che l’inserimento di un numero di punti così ridotto rispetto all’area in oggetto, 1 ogni 1,7 ettari, risulta più che sufficiente per la raccolta di informazioni sulla geomorfologia. Successivamente è stato poi possibile visualizzare il DEM su ArcScene.
La seconda procedura utilizzata è l’individuazione, nelle foto aeree della zona, di anomalie cromatiche riferibili ai paleoalvei. Le foto aeree sono state unite a formare un fotomosaico; l’immagine così ottenuta è stata georeferenziata tramite un apposito programma, nel nostro caso Didger, ed esportata in formato tif nella piattaforma GIS . A questo punto si sono riconosciuti due tipi di anomalie:
? “barre”, ( dossi ), ovvero zone chiare a causa della composizione ricca di sabbia del terreno che ne facilita il drenaggio. Si ipotizza che queste siano riferibili, a barre fluviali ( o isole fluviali, a seconda di come queste siano definite ), livellate dall’azione dei mezzi meccanici;
? “depressioni”, zone scure, per la presenza di torbe e per la difficoltà del drenaggio. Esse si possono interpretare come aree di acque morte, paludi torbose o alvei dei canali stessi.
Le barre e le depressioni sono state individuate tramite la creazione di appositi shapefiles i quali sono stati sovrapposti al modello digitale del terreno precedentemente realizzato, i risultati sono stati significativi.
Risulta immediatamente evidente come alle anomalie individuate corrispondano significative variazioni dell’altimetria ( Figura 5 ) e, accostata questa osservazione al modo in cui esse si dispongono ( con verso N-W/S-E ), appare chiaro che esse siano rapportate a paleoalvei. Verso W troviamo l’attuale alveo del Tartaro, che forse a causa dei lavori effettuati per la realizzazione del “Tartaro Nuovo” e degli inevitabili interventi di arginamento del Tartaro Vecchio, non presenta anomalie che ricordino l’originale tracciato, anche se dalle poche informazioni potrebbe trattarsi di un alveo a canali intrecciati. Al centro dell’area troviamo una situazione più complessa: si notano due serie di anomalie, che coincidono con due scoli attuali, lo scolo Frescà e lo scolo Frescà nuovo. Il primo ha origine circa 500m ad Est della chiesa di S.Pietro ed è interessante notare un dislivello di ben 3 metri tra i due ( 16m ca le tracce del paleoalveo,19m la chiesa ) ,e prosegue in direzione N-O/S-E leggermente incassato tra due rilievi mantendendosi ad O di Campalano. Il secondo raccoglie diversi canali, da Nogara, da Ecce Homo, da Casotto Barabò, i quali, tranne il primo, ricalcano le evidenti tracce di due antichi corsi d’acqua. Particolarmente interessanti sono due anomalie di forma ellissoidale, una presso La Pezza e l’altra nel punto di congiungimento dei due paleoalvei presso Centimina e La Matta. L’ipostesi dell’origine (o di presenza) antropica di tali anomalie non ha avuto conferma nella verifica sul campo, il che lascerebbe pensare che esse, in particolar modo quella di La Pezza, siano riferibili a delle aree di palude morbosa tipiche delle piane alluvionali a canali intrecciati. Più a Sud presso Le Vallette ( Figura 5 ) riscontriamo una situazione che rispecchia perfettamente il nome della località. Ad una quota di 12 metri slm, la più bassa dell’area esaminata, i due paleoalvei ( attuale scolo Frescà e Frescà nuovo) si intrecciano in coincidenza di una serie di anomalie particolarmente complessa. In questa località: sembra verosimile ipotizzare l’esistenza di un’area paludosa creata dal ristagno dell’acqua in corrispondenza dell’unione di due corsi d’acqua ( il dato trova conferma nelle mappa del 1866 ).
4. LA RACCOLTA DEI DATI
4.1 La ricognizione: due possibili livelli.
La ricognizione di superficie vera e propria, quella effettuata direttamente sui campi, si articola su due livelli. Il primo livello è finalizzato alla semplice individuazione del sito archeologico: in questa prima fase i ricognitori avanzano su linee parallele a distanze decise a priori in rapporto al tipo di ambiente nel quale si svolge il progetto o imposte dalla forma/dimensione dell’unità topografica presa in esame ( nel caso qui trattato ad esempio, cioè di una pianura con ampi spazi lavorati in estensione con mezzi meccanici, le distanze si possono aggirare tra i 15-20m da un ricognitore all’altro ). Una volta individuata un’anomalia, ovvero concentrazioni di materiale da costruzione o variazioni cromatiche ( più raramente si individuano direttamente concentrazioni di frammenti ceramici) si cerca innanzitutto di determinarne l’origine. Se essa non presenta tracce di resti/attività antropiche antiche viene semplicemente annotata nella voce “osservazioni” della scheda di UT altrimenti, si cerca innanzitutto di individuarne i limiti. A questo punto si documenta fotograficamente il sito, dopodiché i ricognitori più o meno sistematicamente raccolgono “a tappeto” tutto il materiale antropico, eventualmente campionando embrici e tegole . Questo primo livello di ricognizione, rapido e facilmente applicabile, è consigliabile ai fini di una ricerca che si proponga di ricostruire l’evoluzione delle reti insediative in un territorio abbastanza vasto, infatti i dati che da essa possiamo trarre sono :
-la presenza del sito ( e quindi il suo posizionamento );
-la datazione del sito (ricavabile dai materiali);
-l’interpretazione dello stesso unendo i dati sulla sua estensione approssimativa a quelli desunti dai materiali in esso raccolti, al fine di ricondurlo a delle classi/modelli di sito ( ad esempio un’anomalia inferiore a 500mq, con rari frammenti di laterizio, forti anomalie cromatiche dovute a concentrazioni di terreno ricco di humus e presenza di frammenti di ceramica grezza e pietra ollare è interpretabile come insediamento sparso tardo antico / medievale ) .
Il secondo livello della ricognizione è diretto invece a esaminare nel dettaglio le potenzialità informative del sito: vi è dunque un cambio di prospettiva, da una macro a una micro topografia. L’approccio più diffuso è quello della quadrettatura dell’area: esso può essere finalizzato sia alla raccolta/conteggio di materiale per quadrato, sia per posizionare gli stessi su una mappa, sia per campionare il terreno per sottoporto agli spot test per calcolare le concentrazioni di fosforo .
Nel caso di edifici in muratura questo metodo è particolarmente fruttuoso in quanto ci permette, tramite l’analisi delle concentrazioni di materiale da costruzione di acquisire informazioni su come si articola internamente la struttura.Un problema interessante si pone con i siti altomedievali. Solitamente questa tipologia di siti si distingue dalla superficie circostante unicamente grazie ad una lieve variazione cromatica e presenta basse concentrazioni di materiali. Al fine di comprendere con maggior precisione un sito di questo tipo è possibile delimitare con precisione l’anomalia e procedere , dopo aver quadrettato l’area, al conteggio o alla raccolta del materiale. Ma prima di compiere un’azione che comporta un consumo di energie non indifferente è utile valutare quanto essa può essere efficace. Se si considera che lo scopo principale della quadrettatura è quello di raccogliere informazioni sull’articolazione interna di un sito, nel nostro caso a quali domande potremmo avere risposta? Potremmo tentare di individuare l’esatta ubicazione delle strutture nell’anomalia, ma una maggiore concentrazione di frammenti ceramici o una percentuale di fosforo superiore alla media non ci possono dare dei dati certi, anzi. Con siti di grandi dimensioni comunque i dati raccolti potrebbero portare a risultati interessanti, ma comunque di non facile interpretazione.
Una domanda legittima è quando e perché scegliere di effettuare uno o entrambe i livelli della ricognizione.. La scelta , ovviamente, deve essere effettuata in fase progettuale, secondo gli obiettivi che si pone il lavoro che si sta per compiere e le risorse umane e di tempo. E’ da sottolineare, inoltre,che se ci si propone di effettuare entrambi i livelli, dopo l’individuazione del sito , ovvero dopo che è stato determinato il “potenziale archeologico” dell’anomalia , si dovrebbe procedere immediatamente con la quadrettatura dell’area. Questo eviterebbe la perdita di dati dovuta a una raccolta di materiale non sistematica.
4.2 Visibilità archeologica: un approccio al problema
Le problematiche riguardanti la visibilità sono alcune tra le questioni più discusse all’interno delle pubblicazioni di progetti di ricognizione del territorio. Una valutazione che ritengo utile per affrontare tale argomento è quella data da Nicola Mancassola e Fabio Saggioro in un articolo del 1999 circa la suddivisione del concetto di visibilità in soggettiva e contingente ( l’unione delle quali definisce la visibilità assoluta ).
Visibilità soggettiva
“Si definisce visibilità soggettiva la somma di quei fattori, presenti al momento del survey, che impediscono la possibilità di vedere tutti i manufatti, in accordo con l’intensità e il metodo di raccolta adottati, presenti in superficie in condizioni di visibilità ottimali”.
I fattori che la determinano, possono essere riassunti in cinque categorie:
1. Vegetazione sia erbacea che arborea. Nelle prime vengono considerate sia le colture che le piante infestanti, che possono essere presenti anche contemporaneamente ad esse o successivamente alla mietitura/raccolta. Accanto alla vegetazione erbacea, il cui impatto sulla visibilità è palese, credo sia interessante notare come essa possa essere influenzata dalle piante arboree. Ad esempio nelle ricognizioni effettuate all’interno di impianti di pioppeti, frequenti nell’area indagata , all’interno dei quali spesso non sono presenti infestanti grazie ad occasionali interventi di fresatura, si riscontrano grosse difficoltà nel valutare l’ampiezza della dispersione anche se il materiale archeologico è ben visibile. Questo problema è stato riscontrato nell’esame dell’UT 512, la quale presentava una forte densità di materiale molto frammentario riferibile ad un edificio di epoca romana. Per comprendere l’estensione dell’area di dispersione è stata fruttata la “quadrettatura” offerta dalla regolarità dell’impianto. In questo caso l’occasione offerta da questa “griglia” occasionale non è comunque venuta a vantaggio del ricercatore, in quanto l’eccessiva frammentazione del materiale non ha permesso di ricavare informazioni utili alla comprensione dell’articolazione interna del sito, ma solo di comprenderne la posizione all’interno dell’UT, dato facilmente ricavabile se l’area non fosse stata interessata dall’impianto.
Credo sia inoltre interessante notare la difficoltà di individuare le variazioni cromatiche del terreno in presenza di colture arboree: ciò assume un significato particolare se si nota che spesso i pioppeti sono tipici di aree marginali e umide, nelle quali spesso vengono rinvenuti siti di epoca medievali ( e protostorica ) la cui individuazione è strettamente legata al riconoscimento di tali anomalie.
2. Composizione del suolo . Questo parametro è una stima empirica della granulometria che si ottiene inumidendo un campione del terreno e passandolo tra le dita. Indicare la composizione del suolo seppur genericamente ( da argilloso a sabbioso ) risulta utile se tale dato viene unito a quelli riguardanti umidità e luminosità: un terreno secco e argilloso in una giornata soleggiata tenderà a limitare fortemente il lavoro del ricognitore. Inoltre la composizione di un terreno unita all’umidità ne determinano il colore che può “mimetizzare” o mettere in evidenza differenti classi di materiali.
3. Umidità del suolo. ( Vedi 4.4 Il database informatico: Umidità )
4. Luminosità. ( Vedi 4.4 Il database informatico: Condizioni_ luminosità ).
5. Capacità soggettiva nel rinvenire reperti. Il parametro, che non risulta valutabile oggettivamente, dovrà essere determinato da chi dirige le ricognizioni al fine di ottimizzare le risorse umane disponibili.
A queste cinque voci ne aggiungerei una sesta:
6. Ultimo intervento agricolo effettuato. Per spiegare tale scelta credo basti una semplice equazione: l’ultimo intervento agricolo effettuato sta alle pratiche agricole usuali come la vegetazione riscontrata al momento della ricognizione ( ad esempio il frumento: semina, germinazione, accrescimento, levata, maturazione ) sta alla coltura del campo. L’ultimo intervento infatti è una condizione che varia ogni qual volta si ripete l’analisi dell’UT. Possono essere, inoltre, incluse in tale voce il “degrado” della superficie lavorata dovuto al passare del tempo dal momento dell’intervento. Causa di tale “degrado” sono gli agenti atmosferici. Una superficie arata a media profondità perde progressivamente“visibilità” se non viene ricognita nei giorni successivi all’intervento, ad esempio dopo essere stata soggetta a precipitazioni sulla superficie agricola si crea una patina limosa che rende meno individuabili i materiali e le variazioni cromatiche ( Figura 9 ). Il fenomeno si accentua se essa rimane esposta agli agenti atmosferici per più mesi ( Figura 11 ), portando alla solidificazione di questa “patina”, in questi casi le uniche emergenze archeologiche individuabili si riducono alle concentrazioni più consistenti di materiali.
Pur essendo fattori “oggettivi”, ad eccezione della capacità dei singoli ricognitori, essi sono valutati da colui che dirige il survey in modo soggettivo. Questo dipende dal grado di competenza del ricercatore, che deriva dalle sue esperienze pregresse, specialmente se avvenute in diversi contesti ambientali, dalla sua conoscenza della materia e da molteplici fattori difficilmente determinabili. Al fine di ridurre l’influenza della componente “soggettiva” nella valutazione della visibilità risulta utile l’approccio usato nelle ricognizioni di superficie effettuate dall’università di Padova in territorio gardesano. In questo studio si è scelto di usare una scala numerica dallo zero a dieci, i cui valori estremi corrispondono rispettivamente a una visibilità nulla e ad una ideale visibilità ottimale. I valori intermedi sono stati divisi in tre classi, ad ognuna delle quali corrisponde un range di valori.

Tabella 1 – Diverse scale per esprimere il grado di visibilità.
In tal modo il valore che verrà dato sul campo dal ricognitore sarà numerico, ma nel momento in cui i dati raccolti dovranno essere elaborati il numero sarà ricondotto ad una classe che a sua volta corrisponde ad un valore percentuale, ridimensionando le conseguenze della valutazione soggettiva e facilitando le analisi.
Visibilità contingente
“Si definisce visibilità contingente la somma di quei fattori indipendenti dalle capacità del ricercatore e non influenzabili dalle condizioni riscontrate sul campo al momento della ricognizione”.
I fattori che la determinano, possono essere riassunti in quattro categorie:
? Condizioni geomorfologiche
? Pratica agricola
? % del deposito archeologico intaccato
? Durata dei lavori
Considerata tale posizione e dopo aver valutato le potenzialità da essa offerte in una successiva elaborazione dei dati raccolti, ho cercato di adattarla al territorio preso in esame in questo elaborato. La zona dove originariamente era stato applicato tale approccio, formata dai comuni di Garda, Bardolino e Costermano , presenta, infatti, una situazione dal punto di vista geologico e geomorfologico molto differente: aree collinari, zone con forti dislivelli e affioramenti rocciosi, fondi vallivi con alvei di torrenti, depositi morenici. Le zone della bassa pianura veronese sono invece caratterizzate da un territorio molto più omogeneo: ampie distese coltivate originate da depositi fluviali tipici della pianura alluvionale recente, da depositi mobili lungo gli alvei dei fiumi attualmente attivi e, limitatamente alla zona delle grandi valli veronesi, fasce fluviali depresse e zone a deflusso difficoltoso. Dal punto di vista della lavorazione del suolo troviamo coltivazioni principalmente erbacee, mais, foraggese, soia, barbabietola, grano e, talvolta, arboree, solitamente pioppeti e frutteti.
Se torniamo alle considerazioni fatte precedentemente circa la visibilità noteremo che questioni come la geomorfologia e le pratiche agricole vengono considerate all’interno della visibilità contingente e, quindi, una forte omogeneità dell’ambiente analizzato potrà far prendere in considerazione l’ipotesi di valutarla precedentemente alla ricognizione. Resta, però, il problema della percentuale del deposito archeologico intaccato e alcune considerazioni circa le pratiche agricole. Riguardo al primo quesito ritengo opportuno considerare prima di tutto l’area a livello geomorfologico. Fatte tali premesse, è necessaria una valutazione di tutte quelle azioni che permettono di portare in superficie gli strati archeologici. Le azioni che vanno ad intaccare tali depositi sono le più disparate: scavi di pozzi, livellamenti, dissodamenti, impianto/abbattimento di pioppeti, ma in questa sede sono considerate in particolar modo le attività agricole effettuate su larga scala e sistematicamente, che quindi ci permettono di considerarle in modo altrettanto sistematico; le altre sono state considerate solo nei casi riguardanti specifiche unità topografiche. Il tipo di intervento che più di altri è responsabile delle condizioni attuali della quantità di resti archeologici in superficie è quello dell’aratura:. da quando è stato introdotto l’utilizzo dei mezzi meccanici nelle pratiche agricole essa ha aumentato notevolmente la profondità.
Credo che in questo senso sia chiarificante citare cosa scriveva nel 1974 L.Giardini nel suo volume“Agronomia Generale” sulla “Profondità di aratura”:
“La tradizione agronomica tende a classificare le arature, in funzione della profondità, nel modo seguente:
1. superficiali <15cm
2. di media profondità da 15 a 25 cm
3. profonda da 25 a 35 cm
Negli ultimi decenni tuttavia, l’impulso notevole dato alla meccanizzazione agricola in senso
lato e la messa a disposizione di motori molto potenti, hanno favorito l’evolversi, nel mondo rurale di una mentalità favorevole all’approfondimento delle lavorazioni. Al momento attuale quindi si tende, da varie parti, ad accettare una classificazione di questo tipo:
1. arature superficiali fino a 20 cm
2. arature di media profondità da 20 a 40 cm
3. arature profonde da 40 a 60 cm
Oltre a tali limiti di profondità, pure raggiungibili con l’aratura, si entra nel campo delle lavorazioni a carattere straordinario come il dissodamento e lo scasso (>80-100 cm).”
Attualmente, se consideriamo la “omogeneizzazione” delle tecniche agricole, la profondità media in una zona di pianura può essere stimata intorno ai 30-40 cm. È realistico ritenere che nell’area considerata interventi a tale profondità abbiano interessato tutti gli appezzamenti coltivati e che essi siano stati ripetuti anno per anno portando a una frammentazione dei reperti mediamente costante. Gli strumenti agricoli, infatti, sfortunatamente non si limitano a portare in superficie, seppur danneggiandoli, i resti archeologici, ma con il passare del tempo tendono a frammentarli e disperderli fino a farli scomparire. Tale fenomeno si acuisce con l’utilizzo di erpici/fresatrici, strumenti ideati per frammentare le grandi zolle sollevate dagli aratri al fine di preparare il suolo alla coltivazione. Per concludere quindi, possiamo considerare l’area come soggetta ad interventi omogenei su un territorio geologicamente e geomorfologicamente omogeneo. Questa considerazione ci permette di dare una valutazione complessiva della visibilità contingente pari a “buona-ottima” nelle aree ”ricognibili”, ovvero non edificate o non sconvolte da massicci spostamenti di terreno. Questa riflessione inoltre porta a snellire le procedure di raccolta di dati da effettuare sul campo andando a considerare di volta in volta solo la visibilità soggettiva .
4.3 Le Schede di UT, dal campo all’informatizzazione
Quando si giunge sul campo, dopo la pianificazione di un progetto, l’essersi muniti di strumenti di archiviazione dei dati adeguati alle proprie esigenze risulta fondamentale per una raccolta delle informazioni rapida e completa. A questo fine si è deciso di preparare un supporto cartaceo che permettesse di inserire le informazioni in modo sistematico e sintetico in previsione di una futura immissione dei dati su un database informatico.
Durante le ricognizioni, accanto a questo strumento, si è sempre stati in possesso di mappe delle aree da ricognire in giornata, ricavate con la stampa di parti della CTR
Unità topografica:
Durata dell’indagine:
Intensità:
Pedologia/Umidità:
Stato di lavorazione/Ultimo intervento:
Vegetazione:
Visibilità:
Cond di luminosità:
Reperti:
Osservazioni:
Unità topografica:
Durata dell’indagine:
Intensità:
Pedologia/Umidità:
Stato di lavorazione/Ultimo intervento:
Vegetazione:
Visibilità:
Cond di luminosità:
Reperti:
Osservazioni:
Unità topografica:
Durata dell’indagine:
Intensità:
Pedologia/Umidità:
Stato di lavorazione/Ultimo intervento:
Vegetazione:
Visibilità:
Cond di luminosità:
Reperti:
Osservazioni:
Unità topografica:
Durata dell’indagine:
Intensità:
Pedologia/Umidità:
Stato di lavorazione/Ultimo intervento:
Vegetazione:
Visibilità:
Cond di luminosità:
Reperti:
Osservazioni:
Figura 12 – La scheda di UT utilizzata sul campo.
caricata su GIS. In tal modo era possibile essere sempre aggiornati con lo stato del
lavoro svolto e avere un preciso riferimento cartografico col quale orientarsi, delimitare di volta in volta le unità topografiche e conseguentemente i futuri shapefiles, ai quali veniva immediatamente assegnato un numero, facilitando la futura informatizzazione dei dati raccolti.
In un futuro non lontano risulterebbe auspicabile disporre di palmari in grado di gestire direttamente i database ( vedi il paragrafo seguente ) e i programmi per la visualizzazione delle mappe dell’area, consentendo quindi una decisiva riduzione dei tempi di archiviazione dei dati.
4.4 Il database informatico
La scheda di Unità Topografica è stata redatta con Microsoft Access, programma che si è già rivelato adatto alla creazione di questo tipo di database. La scelta è caduta su Access anche in previsione di un successivo inserimento delle informazioni nella piattaforma GIS .La scheda si compone di diciotto voci, le quali riflettono la dicotomia insita nell’uso dei dati che vengono inseriti nei sistemi geografici territoriali. Il GIS, infatti, anche se in un primo momento viene attribuita la riduttiva, seppur insostituibile funzione di archiviazione di informazioni georeferenziate, nella fase conclusiva, ma anche durante lo svolgersi del progetto, grazie all’utilizzo di modelli predittivi e ad un continuo crescere e dialogare col programma, diventa insostituibile strumento per correlare i dati, confrontarli, interrogarli con query e quindi crearne di nuovi aumentando le potenzialità informative degli stessi. Inoltre il GIS ci permette di avere a portata di mano, sempre e con estrema comodità una grande mole di informazioni, che vanno dalla semplice cartografia, alle foto aeree, dai dati sulle ricognizioni, a quelli sui singoli reperti: tutto dipende dal ricercatore e dal tipo di approccio che egli ha con questo strumento. Seguendo questo principio si nota come alcune voci della scheda di UT compilata risultino ovvie se considerate in se stesse, ma particolarmente utili se viste in funzione delle query alle quali possono essere sottoposte. Ad esempio la voce Ricognito; per il lettore il dato è facilmente ricavabile osservando altre voci come la durata dell’indagine o l’intensità di ricognizione, non è così per il programma, il quale necessita di input “diretti”.
Le voci presenti nella scheda sono:
? Numero_UT. Il numero arbitrariamente assegnato all’UT. La voce è essenziale per correlare il database informatico con gli shapefiles del GIS.
? Ricognito. La voce, come precedentemente accennato, propone due opzioni si/no, di modo che una volta inserito nel GIS si debba scegliere un valore 1/0. In questo modo ad esempio sarà possibile, tramite una apposita query visualizzare solo le UT ricognite, e una volte selezionate calcolarne l’area in mq con un’applicazione adeguata
? N_ricognitori. Il numero di ricognitori che hanno effettuato la ricognizione. Questo dato può risultare utile correlato alla voce “ Durata_indagine(min)” o confrontato con “Intensità” per comprendere alcune scelte di carattere puramente logistico.
Intensità_m
0
5
10
15
20
25
30
? Intensità. La distanza alla quale si sono disposti i ricognitori durante le ricognizioni Rapportata ad altri dati può aiutare a comprendere anomalie nelle presenze archeologiche o permette di calcolare la media delle intensità. Come precedentemente accennato si è scelto di rimanere su distanze non superiori ai 20-25m, le quali, nel contesto studiato, si sono dimostrate un buon compromesso tra problematiche archeologiche e logistiche. Un valore pari a 0 indica una ricognizione non sistematica.
? Durata_indagine(min). Il tempo necessario alla ricognizione.
Stato_di_lavorazione
Incolto
Prato
Coltura_arborea
Coltura_erbacea
Seminato
Fresato
Arato
Mietuto
? Stato_di_lavorazione. Queste informazioni, unite, a quelle sulla vegetazione, aiutano a comprendere alcuni dei parametri che portano alla definizione della visibilità. Con queste voci si è tentato di schematizzare e quindi rendere “informatizzabili” informazioni che solitamente vengono inserite tramite lunghe descrizioni.
Vegetazione
Infestanti spontanee
Ortaggi
Erba_medica
Soia
Frumento
Mais
Frutteto
Pioppeto
Prato
No
Ultimo_ intervento
Ore
Giorni
Settimane
? Ultimo_intervento. Una indicazione indicativa, fortemente condizionata dall’esperienza del ricognitore, del tempo trascorso dall’ultimo intervento agricolo effettuato sulla superficie agricola (Stato_di_lavorazione) .Questa aiuta, unita a “Umidità del terreno” fornisce informazioni che portano a comprendere come il livello di visibilità si modifichi man mano che gli agenti atmosferici agiscono sulle aree coltivate ( in particolar modo se queste sono fresate e arate ).
? Vegetazione . La vegetazione che interessa l’UT. L’informazione può essere ricavato da stoppie o semenze rinvenuti durante la ricognizione. La voce deve quindi essere confrontata con “Stato_di_lavorazione”. “No” indica l’impossibilità di determinare il tipo di coltura presente. Questa indicazione risulta utile sia se rapportata alla visibilità, ma anche a livello pratico per organizzare ( in base ai periodi di semina, mietitura, aratura caratteristici delle diverse coltivazioni ) future indagini delle UT.
Pedologia
Sabbioso
Limoso_sabbioso
Limoso
Limoso_argilloso
Argilloso.
Pedologia. Come precedentemente accennato nel trattare il problema della composizione del suolo, il dato è una “stima empirica della granulometria che si ottiene inumidendo un campione del terreno e passandolo tra le dita”. E’ risultato interessante riscontrare che molte UT con pedologia “Limoso_sabbioso” risultavano essere interessate da paleodossi visibili da foto aerea.
Umidità
Secco
Abb_secco
Media
Abb_umido
Umido
Umidità_del_terreno. Valutazione empirica del grado di umidità che il suolo presenta al momento della ricognizione. Anche questo dato risulta interessante se letto in rapporto alla visibilità.
Condizioni_luminosità
bassa
media
buona
ottima
Condizioni_luminosità. Umidità e pedologia in rapporto alla condizione di luminosità modificano la visibilità. Ne deriva che con questa voce si registri la condizione di luce in rapporto al suolo.
Visibilità_numerica. Valutazione della visibilità su una scala numerica da 0 a 10.
Visibilità_giudizio
Nulla
Bassa
Media
Buona
Ottima
Visibilità_giudizio. Derivata dalla “Visibilità_numerica” secondo quanto indicato nella Tabella 1 .
Sito. Come per la voce “Riconto”, propone due opzioni si/no. In questo modo è possibile determinare quanto i diversi parametri incidano sul rinvenimento dei siti. Elaborando questa informazione su GIS, tramite la realizzazione di una query ( GENERALE.Sito <> 0 ) ( Figura 14 ) che permetteva di visualizzare solo le UT interessate dalla presenza si siti, e attribuendo alle diverse classi di visibilità ( 0, 1-3, 4-6, 7-9, 10 ) ( Figura 13 ) una scala di colore dal giallo al rosso si è notato che tutti i siti individuati presentavano un valore nella voce “Visibilità_giudizio” pari a “Media” o “Buona”. Il dato risulta incoraggiante se consideriamo che le UT con valori di visibilità compresi tra “Media e Buona” coprono 512 h su un totale di 659 h di UT schedate ( Grafico 1 ).
Grafico 1 – Estensione in ettari delle UT con visibilità Media-Buona, e delle UT in totale.
Reperti. Indicativamente i reperti recuperati. Successivamente si è preferito indicarli con maggiore precisione ( dividendoli in classi e numerandoli ) su un apposita Scheda_sito.
Osservazioni.
Periodo_ricognizione
Autunno_2004
Pasqua_2005
? Periodo_ricognizione
? Progetto. Progetto Campalano
4.5 Tipologizzazione delle componenti insediative
I siti archeologici individuati in superficie sono stati ricondotti ad una serie di tipologie fisse divise per periodi, al fine di facilitare una schematizzazione della presenza archeologica sul territorio proponendo dei modelli di reti insediative confrontabili con quelli di altre aree. Le tipologie utilizzate sono state “importate” da progetti che avevano interessato ambiti territoriali più vasti ma simili, sia a livello ambientale che per le vicende storiche dalle quali furono interessati. Si è fatto riferimento, in particolar modo, ad uno studio dell’università di Bologna sull’archeologia del paesaggio nell’Ager Decimanus iniziato nel 2002 e alle ricerche nell’ambito della Pianura Veronese. Le tipologie di cui ci si è avvalsi sono definite da due variabili: l’estensione dell’area di dispersione del materiale e la presenza-assenza di determinati materiali da costruzione unita al tipo di cultura materiale ( in prevalenza ceramica ) la cui analisi fornisce, inoltre, la periodizzazione del sito. Anche se questa procedura per molti aspetti risulta limitante, si rivela particolarmente adatta all’esame dei dati raccolti attraverso le ricognizioni, le quali non possono ambire, almeno nel corso di un primo approccio, a una comprensione del sito nel dettaglio.
SITI ROMANI
TIPOLOGIA
AREA (in mq)
DESCRIZIONE
GrandeVilla
10.000-25.000
Macchia di terreno antropico associata a materiale laterizio (mattoni, coppi, embrici), tessere musive policrome da pavimento, crustae marmoree, intonaco murario, tessere da vasca, elementi pavimentali esagonali, diverse classi di frammenti ceramici sia di uso domestico ( ceramiche da cucina, acrome depurate, pietra ollare, ceramica grigia ) che fini da mensa ( sigillata vernice nera, pareti sottili ).
Villa
5.000-10.000
Macchia di terreno antropico associata a materiale laterizio (mattoni, coppi, embrici), tessere musive policrome da pavimento, crustae marmoree, intonaco murario, tessere da vasca, elementi pavimentali esagonali, diverse classi di frammenti ceramici sia di uso domestico ( ceramiche da cucina, acrome depurate, ceramica grigia ) che fini da mensa ( sigillata vernice nera, pareti sottili ).
Fattoria
2.000-5.000
Macchia di terreno antropico associata a materiale laterizio di età romana, tessere da vasca e frammenti ceramici.
Rustico/Fattoria
1.000-2.000
Macchia di terreno antropico associata a materiale laterizio di età romana. Modesta presenza di ceramiche e anfore.
Rustico
0-1.000
Macchia di terreno antropico associata a materiale laterizio di età romana, frammenti ceramici, anfore, indicatori di attività produttive. In alcuni casi assenza di alterazioni tonali del terreno in corrispondenza del sito.
Tabella 2 – Siti di epoca romana
SITI TARDOANTICHI
TIPOLOGIA
AREA (in mq)
DESCRIZIONE
Sito piccolo
0-500
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata a pochi frammenti di materiale laterizio di (probabilmente di riutilizzo), frammenti ceramici (acroma depurata, grezza, sigillata di importazione o imitazione, anforacei di importazione), pietra ollare indicatori di attività produttive.
Sito medio
500-1.000
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata a materiale laterizio (probabilmente di riutilizzo), frammenti ceramici (acroma depurata, grezza, sigillata di importazione o imitazione, anforacei di importazione), pietra ollare, indicatori di attività produttive.
Sito grande
1.000-2.000
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata a materiale laterizio (probabilmente di riutilizzo), frammenti ceramici (acroma depurata, grezza, sigillata di importazione o imitazione, anforacei di importazione), pietra ollare, indicatori di attività produttive.
Tabella 3 – Siti di epoca tardoantica
SITI ALTOMEDIEVALI
TIPOLOGIA
AREA (in mq)
DESCRIZIONE
Sito piccolo
0-500
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata a pochi frammenti di materiale laterizio di riutilizzo, frammenti di ceramica grezza, pietra ollare.
Sito medio
500-1.000
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata a pochi frammenti di materiale laterizio di (probabilmente di riutilizzo), frammenti ceramici (acroma depurata, grezza, anforacei ), pietra ollare. .
Sito grande
1.000-2.000
Macchia di terreno di colore scuro (antropico), associata materiale laterizio ( in parte sicuramente di riutilizzo), frammenti ceramici (acroma depurata, grezza, anforacei ), pietra ollare.
Tabella 4 – Siti di epoca altomedievale
Le tabelle qui sopra ripropongono, con alcune modifiche quelle esposte nel progetto Decimano. Si è scelto di utilizzare tale strumento in quanto le tipologie proposte sono sufficientemente “neutre” per essere impiegate in diversi ambiti territoriali (preferibilmente della pianura) ; nel nostro caso un confronto tra i siti archeologici della pianura veronese e queste tipologie ha dato un riscontro positivo.
Tra i limiti delle schematizzazioni sopra proposte c’è quello di non contemplare situazioni complesse come quelle della continuità e del riutilizzo degli edifici di epoca romana. Nell’area studiata tutti i siti di una certa rilevanza riferibili genericamente all’epoca romana hanno restituito materiali che lasciavano trasparire una continuità dell’occupazione dal I secolo a.C., se non in taluni casi dalla romanizzazione dell’area, fino al I –II d.C. . Inoltre, in due siti ( UT 107-514 ) si sono trovati materiali che lasciano trasparire una continuità delle presenze fino alla tarda antichità, e nel caso dell’UT 107 non si esclude una prosecuzione dell’occupazione fino all’altomedioevo ( la natura di questa occupazione non potrà però essere chiarita se non attraverso analisi più approfondite, verosimilmente con lo scavo del sito ) . Questo limite pur essendo intrinseco alle tipologie che descrivono i siti in una data fase e non nel loro evolversi, è determinato, ovviamente, dal fatto che difficilmente le fasi iniziale di un sito con lunga continuità, o le fasi di rioccupazione dello stesso sono individuabili “spazialmente “. Questo avviene, solo se le diverse fasi siano diagnosticabili all’interno dell’area interessata dal sito . Ciò accade se esse sono caratterizzate da interventi di particolare consistenza sulla struttura, come l’edificazione di nuovi locali o pesanti modifiche su quelli esistenti, occupazioni stabili con conseguente abbandono materiale datante in quantità diagnosticabili . Nella zona della media pianura veronese indagata, tuttavia, l’eccessiva frammentazione e rimescolamento del materiale archeologico consentono raramente di distinguere le diverse fasi in diverse aree all’interno del sito.
5. I SITI ARCHEOLOGICI INDIVIDUATI
Le ricognizioni sono state effettuate in modo sistematico. La scelta dei limiti geografici delle UT è stata genericamente condizionata dalla forma del parcellario agricolo o dalle colture presenti al momento della ricognizione. I survey prevedevano che i ricognitori, in numero variabile tra 1 e 4, avanzassero parallelamente in modo rettilineo a distanze che, seppur tendenti ai 20 metri circa, sono oscillate tra i 5 e i 30 metri, a seconda della forma e dell’estensione dell’UT o dal numero e dall’esperienza dei ricognitori presenti, in un’ottica di ottimizzazione delle risorse ( umane ) disponibili. Nell’eventualità del rinvenimento di concentrazioni sospette di materiale archeologico o di anomalie cromatiche non naturali i ricognitori si concentravano su di esse diminuendo la distanza che li separava o avanzavano “spalla a spalla”, in modo più o meno sistematico al fine di raccogliere e individuare il materiale in superficie. In fase progettuale si è deciso di raccogliere integralmente il materiale archeologico emerso, campionando solo gli eventuali frammenti di laterizio. Su alcune UT, all’interno delle quali si era a conoscenza, grazie a indicazioni precedentemente raccolte, della presenza di emergenze archeologiche, le ricognizioni spesso sono state non sistematiche e principalmente finalizzate alla raccolta del materiale.
I risultati delle ricerche sul campo hanno individuato le seguenti presenze archeologiche:
UT 107 (108-113) Il sito, individuato precedentemente all’inizio del progetto, si sviluppa all’interno di tre unità topografiche. L’UT 107 è interessata da una fitta dispersione di frammenti di laterizi di piccole medie dimensioni. Sono visibili macchie di terreno di colore scuro ( riconoscibili anche da foto aerea) di non certa origine antropica, in quanto l’area è interessata dalle tracce di un paleoalveo. Interessante è risultata la corrispondenza tra le anomalie cromatiche è i cropmarks individuati nell’aprile 2005. L’UT 108 e 113 pur presentando visibilità nulla sono stati ricogniti e, attraverso l’esame dei rincalzi di terreno a fianco dei filari presenti nelle due aree si è potuto notare che la dispersione del materiale interessava circa la metà dell’UT 108 e la parte a nord dell’UT 113 . Da notizie raccolte sono emerse informazioni di consistenti affioramenti di materiali da costruzione, forse riferibili a sepolture nell’UT 108. L’area di dispersione dei materiali si aggira attorno ai 28.000mq. L’UT 107 ( l’unica sottoposta a ripetute ricognizioni ) ha restituito una discreta quantità di materiali, sufficiente a fissare l’orizzonte cronologico del sito. Il materiale fittile raccolto, la metà del quale è composto da ceramica comune ad impasto grezzo, si colloca tra il I a.C. ( rari frammenti di ceramica grigia, e a vernice nera ) fino al VII-VIII d.C. ( un orlo di ciotola-coperchio III-VI d.C., 3 frammenti di anforacei di origine africana tra i quali è riconoscibile una LT3, terra sigillata chiara tipo C, e frammenti di pietra ollare ). E’ ben testimoniato l’utilizzo del sito fino al I-II d.C. con sigillate italiche, e ceramica a pareti sottili. Nel sito sono stati, inoltre, rinvenute tessere di mosaico bianche e grigie, un frammento di pietra con evidenti segni di lavorazione e un elemento decorativo in rosso ammonitico ( la cui datazione non è però certa) e una punta di trapano .
UT 114 L’UT, ricognita nell’autunno 2004, si presentava caratterizzata da affioramenti di stratificazioni antiche, materiali da costruzione, calce, tracce di focolari ( concotto, cenere ) e un solo frammento di ceramica comune ad impasto grezzo con una decorazione ad ondine che trova confronti con quelle recuperate nell’UT 107. Si è quindi ipotizzato che le anomalie rilevate siano da interpretare come un’area funzionale connessa alla villa, collocabile ipoteticamente in epoca tardoantica o altomedievale.
UT 117 Questo sito è stato individuato incrociando i dati provenienti da varie analisi. L’area è stata segnalata dall’ispettore onorario M. Campagnolo, che ha comunicato la presenza di un rustico genericamente attribuibile all’epoca romana, i resti del quale erano stati asportati a causa dei lavori agricoli. Le ricognizioni effettuate hanno portato al ritrovamento di frammenti di laterizi,in particolar modo in concidenza con alcune aree con terreno limoso-sabbioso. Da un esame della fotografia aerea è emerso che l’area in questione era prossima ad un paleoalveo ed era presente un’ anomalia ben definita di forma
rettangolare ( Figura 16 ) ormai non ben individuabile nelle più recenti foto a colori. A questo si aggiunga che il sig. Campagnolo ha sottolineato, inoltre, l’assenza dell’orizzonte di accumulo di argille arrossate che caratterizzano l’intera area in esame: questo fatto è probabilmente riconducibile agli interventi agricoli che hanno livellato un dosso fluviale sul quale si posizionava un modesto rustico romano ( si ha notizia del rinvenimento di tessere musive).
UT 212 ( Figura 17 -18 ) Il sito presenta le tipiche caratteristiche degli insediamenti sparsi di epoca altomedievale. L’emergenza è individuabile tramite l’affioramento di terreno scuro, ricco di materiali organici su di un’area di 500mq ca, all’interno della quale si sono rinvenuti frammenti di ceramica comune, pietra ollare, reperti osteologici e, grazie all’uso di un metal detector, un discreto numero di reperti metallici. Risulta interessante notare come il sito, individuato nell’autunno 2004, sia risultato a tutti gli effetti scomparso nel corso di un sopralluogo nel 2005( Figura 18 ). Durante le ricognizioni è stato, inoltre, ipotizzato che alcuni dei livelli archeologici risultassero integri, in quanto alcune zolle di terreno riportavano un chiaro stacco tra l’arativo e lo strato ricco di materiali organici. Questo dato è interessante in vista di una futura indagine stratigrafica del sito. I reperti hanno fissato l’orizzonte cronologico del sito tra il VI e l’VIII secolo d.C.. Tale data è supportata da un cospicuo numero di frammenti di pietra ollare ( talcoscisti ) con solcature con profilo ad arco di cerchio a margini irregolari di 0.9-0.7cm, spessori tra i 5 e i 7mm con la parete interna decorata da fitte solcature. Un puntuale confronto si trova a San Tomè Carvico (BG), Tipo3 Tav.II 5., confrontabile a sua volta con i rinvenimenti a Monte Barro t Tipo 5 ( V-VI secolo ), Santa Giulia Tipo 5 ( metà VI-tardoVIII secolo ) e Ager Decimanus Tipo 2. La ceramica comune, prevalentemente composta da olle decorate con sottili solcature parallele orizzontali trova confronti con tipi databili dal IV-all’inizio VII secolo. La possibilità di indagare il sito con un metal detector ha inoltre permesso il recupero di 22 chiodi in ferro di svariate dimensioni. Due di essi della lunghezza di 9-10cm. e uno spessore di 1 cm possono essere ricondotti alla presenza di una abitazione in legno di una certa complessa. Inoltre, molti dei restanti, ipoteticamente legati alla stessa struttura , sono piegati a 90 gradi, fatto riscontrato in strutture con soppalchi. E’ ipotizzabile che una raccolta sistematica dei dati riguardanti i reperti metallici dei siti ricogniti, che solitamente non è eseguita per l’assenza dello strumento, porterebbe a risultati particolarmente interessanti , specialmente in siti con strutture in materiali deperibili.
UT 501-505 ( Figura 15, 19, 20, ) Il sito si presenta come una vasta area di circa 10000mq caratterizzata da terreno antropico, con dispersione frammenti ceramici, laterizio e tessere musive. I reperti comprendono ceramica grigia ( 13 frammenti ), a pareti sottili ( frammento di parete decorata a rotella sul corpo, impasto grigio con ingobbiatura grigia; possibile confronto con coppetta Brescia 1 o coppetta Groppello Cairoli, seconda metà I d.C. ), sigillata nord italica ( Piatto Drag.16-17, I a.C.-I d.C ,coppetta carenata Nord Italica Drag. 24/25 ), anforacei ( Dressel 2/4 ), fine da mensa, grezza ( alcuni frammenti riferibili al periodo di romanizzazione ). Il ritrovamento di un asse di Domiziano del 87d.C conferma inoltre l’orizzonte cronologico indicato dal materiale fittile II/I a.C.- I/metà I d.C. secolo. Si ha notizia di un falletto bronzeo recuperato in precedenti ricognizioni dal sig. Campagnolo. Alcuni frammenti di intonaco dipinto e un cospicuo numero di tessere musive (177 bianche, 5 grigie), oltre ad informarci dell’asportazione dei livelli pavimentali e delle murature, confermerebbero l’esistenza di una pars urbana di una certa qualità.
UT 508-509 A S-O di Ecce Homo lungo lo scolo Seriosa, è visibile un’area con terreno scuro dove si sono rinvenuti materiali di epoca neolitica ( ceramica grezza e reperti osteologici). Il sito dovrebbe trovarsi a qualche metro di profondità, la dispersione del materiale in superficie è da collegare a interventi di sistemazione del fossato. Il ritrovamento dovrebbe coincidere con le notizie riportate sulla Carta Archeologica del Veneto.
UT 512 ( Figura 15 ) Il sito era noto ai gruppi archeologici locali. L’UT è interessata da una coltura arborea ( pioppeto ), ma è regolarmente sottoposta a interventi di fresatura. Questo fatto è riscontrabile nell’elevato numero di reperti di piccole dimensioni rinvenuti. I materiali indicano che il sito è stato frequentato dal I a.C. ( ceramica grigia e a vernice nera ) fino alla tarda antichità ( sigillata e frammenti di anforacei genericamente attribuiti all’epoca tardoantica ). Alcuni frammenti di ceramica grezza pre-protostorica sono interpretabili come materiali residuale. L’area di dispersione dei frammenti ( circa 10000 mq ) si estende dal limite meridionale dell’UT fino a metà della stessa. Questo dato supporta l’ipotesi che il sito si estenda a sud dell’area di dispersione, all’interno dell’UT 507. Da una conversazione avuta con il proprietario è emerso che negli anni ’50 a seguito di una rettifica di un fossato che interessava l’UT 511 ( ad ovest dell’UT 512) erano state portate alla luce un cospicuo numero di strutture murarie riferibili ad un edifico di epoca romana. Dalle descrizioni fornite si è supposta la presenza di un pozzo. Queste informazioni hanno permesso di chiarire le anomalie cromatiche e i reperti di epoca romana rinvenuti nell’UT 511 i quali ad una prima indagine non sembravano essere direttamente riconducibili alla presenza di strutture. Il sito è interpretable come una grande villa di epoca romana con tracce di frequentazione tardoantica.
UT 707 Una dispersione di frammenti di laterizio che interessa un’area di 350mq circa , di forma approssimativamente quadrangolare. Eventuali variazioni tonali del terreno non erano individuabili al momento della ricognizione a causa della secchezza del suolo. Il materiale rinvenuto è composta da 8 frammenti di sigillata africana tipo C e 4 di anforacei entrambe di importazione (III-V d.C.), ceramica comune non depurata, un frammento di cote e alcuni chiodi.
UT 709 Il sito è riconoscibile grazie alla dispersione di frammenti ceramici e pochi laterizi. Il materiale recuperato è composto da sigillate nord italiche, anforacei, ceramica fine da mensa, pareti sottili, grezza e vetro , tutti riconducibili all’epoca romana ( I secolo a.C. – I secolo d.C. ) tranne una parete in grezza con decorazione a sottili solcature parallele orizzontali . Il problema dell’interpretazione di questo sito, ricognito più volte ma sempre con suolo secco, è la totale assenza di terreno scuro e la scarsità del laterizio. Questi fatti hanno portato
• a considerare due ipotesi: la presenza di alcune sepolture, presumibilmente ad incinerazione, di epoca romana o il riutilizzo di materiale di epoca romana in un sito di epoca posteriore ( medievale ). Non è da escludere che il materiale archeologico sia stato riportato a causa di pratiche legate alle bonifiche o al livellamento del terreno.
UT 718 Il sito si trova 50 metri a nord della confluenza tra la condotta consorziale e il Tartaro vecchio, a sinistra dello stesso. Un sopralluogo è stata effettuato a seguito delle informazioni ricevute dall’ispettore onorario Mauro Campagnolo. L’area ha restituito frammenti di ceramica grigia, pareti sottili, sigillata, anforacei ( Dressel 6A ), fine da mensa, grezza e circa 1/3 di mortaio a listello ( I a.C.- II d.C. ); è stata inoltre raccolta la notizia del rinvenimento di coppe tipo Sarius-Sarus. Il sito è individuabile per la dispersione del materiale ceramico e di laterizio, entrambi non risultano eccessivamente frammentati. Dalle sezioni esposte da un fossato che limita il sito ad Est, si ritiene che il sito sia sepolto da una coltre alluvionale a causa della sua vicinanza col il corso del Tartaro. La dispersione dei materiali ( 4000mq circa) e la datazione degli stessi portano ad interpretare il sito come una villa di I a.C- I/II d.C.
UT 820 Il sito si presenta con caratteristiche del tutto simili all’UT 212. Il materiale ( pietra ollare e ceramica grezza ) si differenzia da quello dell’UT 212 solo per un minor numero di frammenti di pietra ollare e per la presenza di un tipo con solcature a sezione triangolare o concava . La ceramica grezza trova gli stessi confronti dell’UT 212 con olle di V-VIII secolo decorate con decorazione a sottili solcature parallele orizzontali. Il sito con un’are ipotetica di 640 mq viene interpretato come un insediamento sparso di epoca altomedievale.
SITI DI EPOCA ROMANA
Area ipotetica
Tipologia
UT 107 (108-113)
28000
GrandeVilla
UT 117
903
Rustico
UT 501
11162
GrandeVilla
UT 512
9534
Villa
UT 709
487
Rustico
UT 718
4000
Villa
Tabella 5 – I siti di epoca romana interpretati attraverso la tabella 2
SITI CON MATERIALE TARDO ANTICO
Area ipotetica
Tipologia
UT 107 (108-113)
?
Continuità
UT 512
?
Continuità
UT 707
322
Rustico
Tabella 6 – I siti di epoca tardoantica interpretati attraverso la tabella 3
SITI ALTOMEDIEVALI
Area ipotetica
Tipologia
UT 107 (108-113)
?
Riutilizzo
UT 212
548
Sito medio-piccolo
UT 820
640
Sito medio-piccolo
Tabella 7 – I siti di epoca altomedievale interpretati attraverso la tabella 4
6. I MATERIALI E LA RICOGNIZIONE
Posto che l’archeologia dei paesaggio ha ormai preso coscienza da molto che il riconoscimento del sito in superficie non è legato unicamente al rinvenimento di reperti, ma a tutta una serie di evidenze riscontrate sul terreno, tuttavia essi restano insostituibili per la comprensione dell’emergenza sia a livello cronologico che interpretativo.
I problemi legati allo studio dei materiali ceramici e non provenienti dal survey possono essere ricondotti a due fattori:
? L’alterazione dei reperti dovuta a vicende post-deposizionali, legata in particolar modo all’esposizione degli stessi all’azione degli agenti atmosferici e alla frammentazione provocata dalle pratiche agricole
? Lo stato degli studi di alcune classi ceramiche
6.1 Agenti atmosferici e frammentazione
I limiti che la frammentarietà ( Figure 20 e 22 ) dei reperti provoca nello studio degli stessi risulta palese. Spesso l’analisi deve essere effettuata su materiali con dimensioni che oscillano tra i 6 e i 3 cm ( al di sotto di tale dimensione solo alcuni materiali conservano il loro potenziale informativo ), mentre poche UT, soggette a interventi eccezionali, solitamente manutenzione e scavo di fossati, restituiscono reperti di dimensioni maggiori. A questo si deve sommare il fatto che la classificazione tipologica si basa sul rinvenimento di forme diagnostiche, che spesso si riduce generalmente all’esame di frammenti di orli e, solo per alcune classi ( terra sigillata, ceramica grigia ), di fondi/piedi. Altri attributi analizzabili sono le decorazioni, in particolar modo per le ceramiche a pareti sottili, e le caratteristiche macroscopiche degli impasti, ma quest’ultimo tipo di analisi necessita di personale specializzato e, tuttavia, risulta essere particolarmente lunga e ostacolata dalla scarsezza delle pubblicazioni che affrontano la questione in modo sistematico. Un caso interessante sullo studio del trattamento della superficie esterna, è risultato essere quello di due frammenti di ceramica grezza ( UT 107 catino-coperchio, UT 114 olla ) ( Figura 26 e 27 ) che presentavano una decorazione ad ondine e fitte solcature. Questo tipo di finitura presenta una datazione problematica, in quanto è attestata dalla tarda antichità al medioevo. Tuttavia, grazie all’osservazione delle caratteristiche macroscopiche dell’impasto e al trattamento della superficie esterna, è stato possibile un confronto con materiali ( olle e catini coperchi ) rinvenuti in strati di V-VI secolo d.C. provenienti dallo scavo di Rocca di Garda 1998-2003 ( in corso di studio ). Questa serie fortuita di coincidenze evidenzia da un lato il problema della datazione di frammenti di pareti, e dall’altro la possibilità dell’ampliarsi dei confronti con l’aumento delle pubblicazioni che affrontano il problema degli impasti di una classe di materiali così problematica come quella della ceramica grezza.
L’esposizione dei frammenti ceramici agli agenti atmosferici provoca l’alterazione delle superfici, questo porta all’asportazione parziale o totale degli ingobbi e dei rivestimenti in genere. Le classi sulle quali l’azione di questi fattori risultata essere più evidente sono la terra sigillata, la ceramica a pareti sottili e alcune tipologie di anforacei tardoantichi.
Il problema ha assunto particolare rilievo durante il progetto Campalano in quanto la terra sigillata e gli anforacei di epoca tardo antica, particolarmente soggetti ad esso, sono risultano essere determinanti per il riconoscimento dei siti frequentati tra il III e il VI secolo d.C.. Per quanto riguarda le anfore tardoantiche una trattazione diretta del problema è stata stesa nel corso di uno studio sui materiali d’importazione su alcuni transetti ricogniti nell’ambito del progetto Decimano da Marilisa Ficara . Le sigillate pur presentando forti segni di degrado hanno restituito nella totalità dei casi lacerti del rivestimento anomalo sufficienti.
6.2 Lo stato degli studi di alcune classi ceramiche
Questo fattore è il risultato di diverse problematiche. La prima è la mancanza a livello regionale ( Veneto ) di pubblicazioni che, raccogliendo molteplici studi sulle diverse classi ceramiche provenienti da contesti datanti, facilitino il confronto e conseguentemente la datazione dei materiali. Questo problema è legato al fatto che spesso colui che si occupa del progetto non ha sempre il tempo necessario per condurre uno studio dettagliato sui materiali e spesso può solo appoggiarsi a specialisti che lo indirizzano alle pubblicazioni opportune qualora esse esistano. Nel nostro caso, per i reperti fittili, si è fatto riferimento ad un volume a cura di G. Olcese, “Ceramiche in Lombardia tra il II secolo a.C. e VII secolo d.C: raccolta dei dati editi”, che, pur nei limiti che un contributo ad un progetto così ambizioso ovviamente presenta, si pone come modello di strumento particolarmente utile all’archeologo dei paesaggi per la grande quantità di confronti messi a disposizione.
Un’altra serie di problemi è legata allo stato degli studi che ogni classe ceramica presenta. Particolari limiti si pongono nello studio della ceramica grezza. In questo caso il problema è intrinseco alla classe ceramica in questione, infatti seppure le forme riconosciute nel corso del progetto Campalano abbiano trovato confronti con materiale databile a periodi che coincidevano con i periodi attribuiti a siti, in base alle evidenze e ad altri materiali, la questione della databilità della ceramica grezza resta un problema. Dagli studi effettuati appare infatti evidente che tale classe ceramica conserva le stesse forme per lunghi archi cronologici e che, come sopra accennato, non sempre sono disponibili dati sulle caratteristiche “tecnologiche” del materiale pubblicato.
Anche la sigillata è stata una classe ceramica che ha sollevato non pochi problemi. Questi ultimi sono stati riscontrati sui materiali successivi al II secolo d.C.. Come è noto nel corso di questo secolo la tradizione produttiva e commerciale italica andò esaurendosi. Essa, tuttavia, non si estinse mai del tutto, ma proseguì almeno fino alla tarda antichità in forme diverse. Riflettendo tale situazione, anche le ceramiche fini, prodotte in Italia dal II secolo d.C., presentato areali di diffusione assai limitati. Nei secoli successivi, parallelamente alla regionalizzazione delle produzioni emersero altri due fenomeni: le importazioni e le imitazioni locali di sigillata. Risulta evidente, quindi, come la carenza di pubblicazioni che esaminino la distribuzione di tali materiali a livello interregionale e regionale condizioni drasticamente la lettura delle tracce lasciate sul territorio delle reti insediative tardoantiche: e forse la scarsezza di siti nei quali si siano riscontrate frequentazioni databili al III-VI d.C. può essere stata in parte sovradimensionata dal vuoto di conoscenze sui materiali di epoca tardoantica. Senza volerci addentrare oltremodo in un dibattito tuttora aperto rimandiamo alle pubblicazioni esistenti.
7. L’ASSE VIARIO OSTIGLIA-VERONA
Le reti insediative, specialmente per l’epoca romana, non possono non essere considerare in rapporto agli assi viari. Questo tipo di analisi risulta più complicato se il periodo preso in considerazione è quello altomedievale, ciò non in quanto mancasse una rete stradale di un qualche genere, ma per la scarsezza di tracce lasciate dalle stesse e a volte per le datazione erronee alle quali possono essere soggette. Le difficoltà non mancano nemmeno nello studio dei tracciati viari di epoca romana. Infatti essi sono spesso occultati da spesse coltri alluvionali o da attuali strade asfaltate, intaccate da secoli di lavori agricoli e non di rado eventuali miliari risultano essere stati asportati e riutilizzati. Un asse viario che senza dubbio ha avuto grande influenza sulla zona qui esaminata è quello Modena-Ostiglia-Verona. Della Claudia Augusta Padana oltre alle citazioni nell’Itinerarium Antonimi e nella Tabula Peuntingeriana, rimangono tre pietre miliari e un tronco della via tra Ostiglia e Gazzo Veronese. Senza volerci addentrare nella questione trattata con completezza dal Calzolari, si voleva qui aggiungere un possibile nuovo dato. Nel corso di una ricognizione nel maggio del 2005 presso la località Le Pezzone, a margine dell’UT 413, è stato rinvenuto un frammento di pietra lavorata interpretabile come parte di una base di un cippo.
Il frammento ha uno spessore di 15 cm, un’altezza di circa 45 cm di cui 30 cm relativi alla base quadrangolare e 15 cm ad un fusto di forma cilindrica . Su tre lati risulta ben lavorato, il quarto è il risultato della frantumazione del pezzo originale, forse a scopo di riutilizzo. La datazione del reperto risulta difficile per la mancanza di iscrizioni, ma da alcuni confronti, non si esclude che esso sia quanto resta di un miliare di epoca romana. Un eventuale collegamento tra il reperto e l’asse Ostiglia-Verona risulta tuttavia una mera ipotesi.
8. CONCLUSIONI
8.1 La rete insediativi dalla romanizzazione agli albori della Tarda Antichità
I dati raccolti, riferibili alla comparsa dei primi insediamenti romani e quelli relativi a periodi precedenti, non risultano particolarmente consistenti. I siti pertinenti all’epoca pre-protostorica risultano essere soltanto due: l’UT 507-8 preso Ecce Homo con materiale neolitico (“chiazze di terra nerastra e raccolti pochi frammenti ceramici e litici, V-metà IIImillennio”) e l’UT 125, sito del quale si conosce l’esistenza, grazie alle indicazioni della Carta Archeologica del Veneto ( “Strato archeologico alla profondità di 1,5 m circa, in uno strato torboso a sud del limite delle risorgive. Rinvenuti frammenti di macine, reperti faunistici, materiale fittile.Fine media età del bronzo XIV-XII a. C.” ). Questi insediamenti risultano interessanti non tanto nello studio delle reti insediative dei rispettivi periodi, ma in quanto entrambi risultano occultati da uno spesso livello di depositi alluvionali che fornisce un termine post quem agli attigui paleoalvei ( Figura 38 ). La scarsità di dati ottenuti attraverso le ricognizioni per i periodi sopraindicati è dovuta alle evidenti difficoltà nell’individuare i siti durante le ricognizioni, in quanto spesso essi non sono intaccati dalle comuni pratiche agricole in quanto giacciono a considerevoli profondità.
Per quanto riguarda il periodo della romanizzazione dell’area gli unici dati rinvenuti riguardano alcuni frammenti ceramici presso l’UT-501, la quale, del resto, risulta essere il sito romano più antico ( II – metà del I sec a.C. ). Questo dato è confortato dall’abbondante presenza di ceramica grigia e a vernice nera. Altri materiali di buona fattura quali sigillata nord italica, un falletto bronzeo, ceramica a pareti sottili oltre che un apparato decorativo di rilievo, tipico della pars urbana delle ville di età imperiale ( tessere policrome e intonaco affrescato ) lasciano trasparire l’importanza assunta nel tempo da questo sito. Pur non essendo possibile dai pochi dati in nostro possesso confermare che il sito abbia occupato un precedente insediamento, l’ipotesi non è da escludere. Tra la fine del I sec a.C. e il I sec. d.C. il numero degli insediamenti romani crebbe in modo considerevole: ne sono testimonianza due siti di notevole estensione nell’UT 107 ( più di 20.000mq di dispersione ) e nell’UT 512 ( 10.000mq di dispersione ) e un sito di dimensioni non chiaramente definibili in quanto occultato da una spessa coltre alluvionale nell’UT 718 (circa 4000mq di dispersione ). Tutte queste aree hanno restituito elementi di cultura materiale che lasciano trasparire l’esistenza di una parte residenziale di discreto livello: nell’UT 107, infatti oltre a tessere musive policrome si sono rinvenuti frammenti lapidei lavorati. Questo, anche se lascia supporre la presenza di una pars urbana non esclude, naturalmente, la presenza di una pars rustica che con buona probabilità aveva una funzione fondamentale nell’esistenza di questi siti. I problemi legati all’identificazione delle parti funzionali delle ville risulta 
Grafico 2 – Siti romani
difficilmente superabile se ci si basa esclusivamente sui dati da ricognizione, infatti, ironicamente, risulta più semplice attribuire una funzione produttiva al sito in base a “dati di assenza” di elementi di pregio nel sito. In un solo caso nel corso del progetto Campalano le evidenze archeologiche hanno portato ad interpretare come “area funzionale” i resti rinvenuti: nell’UT 114. Ciò è stato reso possibile dall’affioramento di resti di calce, terreno scottato, laterizio e tracce di focolari in una zona che oltretutto risulta di sicura pertinenza della villa dell’UT 107 ( l’ipotesi è confortata dal ritrovamento di materiale che trova confronto con quello dell’UT 107) . Accanto a questi troviamo alcuni siti di minori dimensioni. Nell’UT 117 si ipotizza un sito di medie dimensioni ( circa 1000mq ) e nell’UT 709 una dispersione di materiale interpretabile come un gruppo di sepolture. L’interpretazione dell’UT 117, come precisato nel capitolo 5, non è possibile per evidenti motivazioni; per quanto riguarda l’UT 709 la lettura data delle evidenze fatte potrà essere confermata solo da ulteriori ricognizioni o, più verosimilmente, dallo scavo dell’area.
Con i dati a nostra disposizione possiamo quindi dedurre che tra il I secolo a.C. e II secolo d.C. l’insediamento romano è caratterizzato dalla presenza di strutture con un buon livello di cultura materiale e di notevole estensione: una serie di grandi ville dotate con ogni probabilità di una pars rustica con la quale venivano messe a frutto le risorse del territorio circostante. Questa conclusione trova supporto sia dai risultati ottenuti nello studio di zone limitrofe che da progetti in ambito regionale. A questo punto risulta ovvio domandarsi quali fossero queste risorse e quali motivazioni hanno portato all’insediamento di queste aree. Senza cercare dedurre queste risposte inserendo questi siti all’interno di dinamiche economiche di carattere regionale, si è tentato di proporre delle ipotesi dai dati relativi al paleoambiente. Come è stato evidenziato nel capitolo 3, l’area in esame è interessata da un discreto numero di paleoalvei, i quali hanno verosimilmente ospitato corsi d’acqua, di variabile portata a seconda dei periodi, all’interno dell’arco cronologico qui trattato. Posta questa ipotesi è interessante notare che tutti i siti risultano essere a stretto contatto con tali alvei e in zone depresse e apparentemente poco ospitali. Questo dato non pare essere frutto di un caso, bensì, sembrerebbe legato a precise scelte insediative. A confermare ciò si noti che l’unico sito posizionato a più di 700 metri ad una quota di circa 17m slm circa rispetto a una media di 14.7m slm, è quello dell’UT 709, interpretabile come gruppo di sepolture. Questa scelta insediativa non risulta essere immediatamente riconducibile all’approvvigionamento idrico,e solo per il sito dell’UT 718 è possibile che l’impianto della villa in prossimità del Tartaro sia legato alla sua funzione di idrovia. Un’ipotesi da non scartare, ma che per il momento non può trovare conferma è legata al tipo di risorse presenti sul territorio. Non esistendo dati che ci informino con precisioni di quali fossero le attività principali nell’area in questione ma, consci che la zona in questione fino al basso medioevo era interessata da vaste distese boschive credo sia quantomeno interessante ipotizzare lo sfruttamento di questo tipo di risorsa nell’epoca romana. Possibili conferme possono essere ravvisate nell’assenza di concreti segni di organizzazione del territorio ( centuriazione ) e nelle tracce di zone paludose riferibili ad ambienti ricchi di vegetazione arborea. Conferme o smentite potranno arrivare solo da uno studio sistematico del paleoambiente e dallo scavo delle aree produttive dei siti.
8.2 La crisi dell’insediamento nella Tarda Antichità
Il periodo immediatamente successivo alla piena età romana presenta tuttora notevoli problematiche. Nell’ambito della pianura veronese diversi studi evidenziano profonde trasformazioni nella rete dei siti, che solitamente corrispondono ad una contrazione insediativa. Questo risulta evidente se paragoniamo il numero dei ritrovamenti tra I – II secolo d.C. e quelli tra III – V secolo d.C. Tuttavia come già sottolineato da Nicola Mancassola in un contributo del 2000, la visibilità del dato archeologico tardo antico è profondamente condizionata dalla scarsa conoscenza dei materiali relativi a questo periodo. Gli unici fossili guida ai quali l’archeologo dei paesaggi può fare riferimento sono le “ceramiche fini d’importazione africane ( terre sigillata chiara C o D )” e gli anforacei di produzione africana. Se uniamo questo limite a quelli intrinsechi del survey, ci si rende conto della cautela con la quale devono essere proposte le interpretazioni per questo periodo.
Nel corso del progetto Campalano i siti che hanno restituito frammenti di sigillata e anforacei d’importazione sono tre, due di essi l’UT 107 e l’UT 512, sono attivi fin dalla piena epoca romana, mentre i ritrovamenti presso l’UT 707 sono riferibili ad un edificio di pianta quadrangolare, in muratura di ridotte dimensioni ( 322 mq di dispersione ) eretto in epoca Tardo Antica. Risulta particolarmente interessante notare che la ceramica grezza rinvenuta all’interno di queste UT, che costituisce la classe di reperti presente i maggior quantità, abbia trovato confronti, anche se solo per orli e alcuni motivi decorativi, con materiali di III-VI secolo d.C. . Questo dato è incoraggiante e ci permette di ipotizzare un aumento delle informazioni sulla rete insediativa tardoantica grazie a nuovi dati sulla ceramica comune locale rinvenuta in contesti databili.
Grafico 3 – Siti tra Epoca Romana e Tarda Antichità.
Osservando i dati raccolti notiamo che nell’area considerata la rarefazione dell’insediamento non risulta particolarmente significativa (anche se non è possibile precisare se la natura dei siti presso le UT 107 e 512). Nella piena epoca romana troviamo 3 grandi ville, 1 villa e 1 rustico mentre nella tarda antichità 2 delle grandi ville presentano una continuità insediativi ed è presente 1 rustico di nuova fondazione. Riguardo alle scelte insediative si può notare che contrariamente alle osservazioni fatte per il I secolo a.C – II secolo d.C., il sito dell’UT 707 si trova a 16,7 metri slm e a circa 370 metri dall’alveo del Tartaro. Questo dato seppur interessante, se interpretato come un segno del peggioramento delle condizioni ambientali che indussero a favorire l’insediamento ad una certa distanza dalle zone umide, non può essere ritenuto significativo per la mancanza di confronti.
8.3 L’Altomedioevo
Il primo dato che merita una particolare attenzione riguarda la spinosa questione della visibilità dei siti altomedievali in superficie. Ormai da alcuni anni questo problema viene affrontato nei progetti di ricognizione territoriale che si interessano a questo periodo. Durante le ricognizioni effettuate in questo progetto sono stati rinvenuti due siti riferibili all’epoca altomedievali, presso l’UT 212 e l’UT 820. Entrambi presentavano lievi variazioni cromatiche, i limiti delle quali erano difficilmente individuabili. Ciò è stato causato per l’UT 212 dall’esposizione della superficie agricola agli agenti atmosferici e la notevole umidità del terreno ( vedi capitolo 4 ) mentre per l’UT 820 dall’eccessiva secchezza del suolo. Questo da un lato conferma il problema dell’individuazione dei siti altomedievali in superficie, ma dall’altro conferma che la scelta di un’intensità dai 15 ai 20 metri ne permette il rinvenimento da parte di un ricognitore di media preparazione. Questa lieve variazione cromatica, dovuta al rimescolamento del terreno antropico, era associata a pochi frammenti di materiale laterizio di riutilizzo, frammenti di ceramica grezza, pietra ollare, parecchi chiodi e resti osteologici. Entrambi i siti presentano una distribuzione del materiale compresa tra i 550 e 650 metri circa. I dati relativi all’UT 212 risultano più completi in quanto l’area, dopo essere stata esplorata con l’ausilio di un metal detector, ha restituito materiali che aiutano a ipotizzare la natura dell’insediamento. Come asserito nel capitolo 4, i chiodi rinvenuti hanno caratteristiche che li mettono in relazione ad una struttura di legno di una certa robustezza: è quindi ipotizzabile che un dispendio di risorse ed energie di questo tipo sia da ricollegare ad una volontà di stabilità e si può quindi ipotizzare che il sito risulti essere un insediamento occupato per un discreto periodo. Per quanto riguarda l’UT 820, non sussistono motivazioni che portino ad una diversa interpretazione del sito.
La datazione della pietra ollare rinvenuta è confermata all’VI-VIII secolo d.C. anche dai confronti dei frammenti di ceramica grezza. Entrambi mostrano caratteristiche talmente simili da indurci a pensare che essi possano essere stati attivi nel medesimo arco cronologico. Un terzo sito ha restituito materiale altomedievale, seppur in quantità non sufficiente a definire la natura di tale presenza: l’UT-107. In questo sito, occupato con continuità dall’epoca romana alla tarda antichità, alcuni frammenti di pietra ollare confermano la frequentazione del sito nell’altomedioevo. Se si considera che gli insediamenti dell’UT 212 e 820 presentano materiale ( pietra ollare ) confrontabile con quello rinvenuto nell’UT-107 e che essi si trovano rispettivamente a 700 e 400 metri dalla villa ( Figura 42 ) si può ipotizzare che essi gravitassero attorno ad essa. Considerato inoltre che i rinvenimenti di reperti altomedievali nell’area della villa sono modesti, supponiamo che questa sia oggetto solo di una sporadica frequentazione più che di un vero e proprio riuso. Tali considerazioni, tuttavia, sono destinate a rimanere nel campo delle ipotesi, a meno che il sito non venga indagato con uno scavo in estensione.
Con la fine dell’altomedioevo compaiono le prime fonti scritte che si riferiscono ad un insediamento a Campalano. La prima datata ottobre 988, redatto a Verona, riguarda una donazione di Giovanni, diacono della chiesa e del monastero si S. Maria in Organo, alla stessa chiesa e monastero, di un appezzamento di “terra aratoria cum buscaliis et arbustibus” posto “in finibus veronensibus in loco effundo Gaio non longe ad fossa que vocatur Gaula locus ubi dicitur Campalliano”. Il documento oltre ad informarci dell’esistenza di una località chiamata Campalliano, lascia trasparire la natura del luogo. In esso, infatti, si parla di una “fossa que vocatur Gaula”, di un “rio quod vocatur Gaulella” e di aree coperte da boscaglia ed arbusti, elementi che sembrano confermare i dati ricavati dallo studio dei paleoalvei e della cartografia storica. Ne emerge un ambiente fortemente caratterizzato dalla presenza di corsi d’acqua e fossati che lasciano strasparire sia un tentativo di regimare il deflusso delle acque di superficie ma, al contempo, l’esistenza di zone coperte da vegetazione spontanea come arbusti e boscaglia; verosimilmente legata ad aree paludose. Tre successive testimonianze si trovano in documenti di conferma dei possedimenti del monastero di S.Zeno di Verona del 21 Maggio 1014, 24 Maggio 1027 e dell’8 Maggio 1047. Nei primi due tra le varie proprietà del monastero è ricordato “Campo-Uualani” mentre nel terzo è riportato “Campolane”. Questi atti testimoniano una certa rilevanza assunta della località , la quale potrebbe essere individuata, data la mancanza rinvenimenti resti archeologici riferibili al pieno medioevo e supponendo una continuità insediativi della stessa, in coincidenza dell’attuale frazione di Nogara , Campalano per l’appunto.
Note
Tuttavia si sottolinea che nei pressi del corso del Tione, alle estremità di aree in antico coperte da boschi e acquitrini e lungo l’antica strada che portava ad Ostiglia si sono riscontrate aree con continuità insediativa.
CALZOLARI 1986 e 1989, SAGGIORO 2004
Vedi capitolo 7.
VALENTI 1999, p.9.
VALENTI 1999
FRANCOVICH, VALENTI 1999 e VALENTI 1999
SAGGIORO 2005a, SAGGIORO 2005b.
GUIDI 1992.
VALENTI 1999, p.9 nota. 21.
VALENTI 1999, p.10
CARRARA 1992 e SAGGIORO, MANCASSOLA, SALZANI, MALAGUTI, POSSENTI, ASOLATI 2001
CALZOLARI 1986 e CALZOLARI 1989.
MENEGHEL 1992
SORBINI, GANDINI, MENEGHEL, RIGONI, SOMMARUGA 1984
Per una recente riflessione sul metodo si veda AA. VV 2002.
FORTE 2002, p. 147
FORTE 2002, p. 150 tabella1
GIS by ESRI, p. 145
BERSEZIO, CREMASCHI 2000 pp. 129-140 .
MARCHETTI 2000, pp. 90-94 .
E’ interessante notare come fossati e corsi d’acqua attuali si trovino spesso al loro interno.
Questa mappa del Regno d’Italia è stata georeferenziata e inserita nel GIS.
Vedi Tabelle 2,3,4.
CLARKE 1977.
Per un recente approccio CAVANAGH, CROUWEL, CATLING, SHIPLEY, 1996, pp.235-261 e AYALA, CANTI, HEATHCOTE, SIDELL, USAI 2004, pp. 17-19.
MANCASSOLA, SAGGIORO 1999
MANCASSOLA, SAGGIORO 1999, p. 99.
SAGGIORO 2005c, pp. 60-62.
CREMASCHI 2000, p. 38 Fig.4.
Rielaborazione da FICARA 2003/4.
MANCASSOLA, SAGGIORO 1999, p. 99.
FICARA 2003/04, pp.119-171.
GIRARDINI 1974.
GIRARDINI 1974, pp.228-229
In questo caso si è usato “Calcolate Acres” Bennett & Peters, Inc., questa e altre patch simili sono disponibili nella sezione download del sito ESRI.
Successivamente alla semina.
Una luce intensa diminuisce sensibilmente la visibilità soggettiva su un terreno secco ma non crea problemi su un terreno con umidità “Abb.umido”.
Il valore “Ottima” non è mai stato attribuito.
La classificazione dei siti archeologici si deve al Dott. Nicola Mancassola e sono state realizzate nel corso dello studio degli aspetti insediativi del territorio Decimano. FICARA 2003-04, pp.30-31 Tabella 1 e 2
FICARA 2003/04, p.9.
OLCESE 1998, tegame n. 5 (tav. LXXXIV, nn. 6) p.163
Il frammento in questione trova confronto nelle caratteristiche macroscopiche dell’impasto e nella trattamento della superficie esterna, con materiali ( olle ) rinvenuti in strati di V-VI secolo d.C. proveniente dallo scavo di Rocca di Garda ( in corso di studio ).
Per la bibliografia dei confronti si veda MALAGUTI, ZANÈ 2000.
FICARA 2003/4.
Si veda OLCESE 1998.
Carta Archeologica del Veneto
Colgo l’occasione per ringraziare il Sig. Luca Santoro per la segnalazione.
Verosimilmente sigillata africana tipo C-D.
Si noti la vicinanza con il sito dell’UT 508-509
Il proprietario ha accennato al ritrovamento di murature con andamento circolare, interpretabili sia come absidi, ma più verosimilmente come pozzi, il ritrovamento dei quali risulta frequente nella zona. A questo proposito Carta Archeologica del Veneto.
Forse databile all’epoca altomedievale.
CALZOLARI 1989 ,pp. 98-99 fig.62
DELLA PORTA, SFREDDA, TASSINARI, p. 135
La tabella pur risultando utile per fare il punto della situazione evidenzia i limiti delle tipologie elaborate.
La tabella pur risultando utile per fare il punto della situazione evidenzia i limiti delle tipologie elaborate nei casi di continuità / riutilizzo del sito..
DELLA PORTA, SFREDDA, TASSINARI, p. 133
I materiali risultano in corso di studio. La ceramica grezza sarà pubblicata in S. Morina, E. Ferronato La ceramica comune nel volume a cura di G.P.Brogiolo sullo scavo di Rocca di Garda.
A questo proposito si rimanda a BROGIOLO, GELICHI, 1998, e GELICHI, 1998.
Per aggiornamenti sullo stato del progetto: http://www2.unibo.it/Archeologia/ArcMed/progDeci.htm#section2
FICARA 2003/4
Per la pietra ollare MALAGUTI, ZANE, 2000 ( e relativi confronti ), FICARA 2003/4 . Per gli anforacei d’importazione FICARA 2003/4 ( e relativi confronti ). Per la sigillata note relative.
OLCESE 1998
Vedi nota 4
DELLA PORTA, SFREDDA, TASSINARI 1998 :“[…] soprattutto dal V secolo in poi,emergono numerose difficoltà nell’analisi. Dopo quest’epoca, infatti, sono pochi sia i sepolcreti con corredo ceramico, sia i contesti chiusi, anche in scavi stratigrafici di insediamenti (senza contare il fenomeno della residualità). Perciò è spesso arduo isolare precise fasi cronologiche all’interno del periodo “tardoantico/altomedioevale”; è il caso, ad esempio, delle olle nn. 77-80, attestate in contesti databili genericamente dal III/IV al VII sec. d.C. ” Per sottolineare come il problema risuli evidente, si noti che materiali provenienti dalle UT 212 e 820 hanno trovato confronto con l’olla n 79.
DELLA PORTA, SFREDDA, TASSINARI 1998 :“Infatti la funzionalità e la continuità d’uso di tali recipienti determinano un conservatorismo che ostacola o impedisce datazioni puntuali da parte degli studiosi. Datare questi reperti in ceramica comune rimane un problema anche perché i contesti da cui essi provengono spesso non sono chiusi (per vari motivi, tra cui la mancanza di stratigrafia del sito e il fenomeno della residualità)”p.134
DELLA PORTA, SFREDDA, TASSINARI 1998 p.133: “[…]studi su singoli siti hanno mostrato come per la individuazione di un tipo i parametri morfologici debbano essere strettamente affiancati a parametri tecnologici. Ciò infatti consente di cogliere differenze non soltanto culturali (forma), ma anche funzionali e di produzione (impasto, modellazione e cottura). Purtroppo, a causa della natura prevalentemente bibliografica dei dati disponibili, non sempre è stato possibile utilizzare l’impasto e la tecnica di foggiatura e di cottura del vaso come elementi di distinzione. Ciò è principalmente dovuto al fatto che questi fattori non vengono descritti in maniera omogenea nelle pubblicazioni e quindi non è possibile farsi un’idea precisa delle caratteristiche tecnologiche dei r e p e r t i.” , p.137 “[…]dai dati raccolti nel nostro studio, emerge la continuità di alcune forme e tecniche della tradizione ceramica romana dopo il V secolo.” e ancora p.137“Si evidenzia un impoverimento del repertorio morfologico, ridotto nelle forme e nei tipi, ma è azzardato concludere che tutta la produzione ceramica del periodo in questione sia modesta, funzionale all’autoconsumo e con circolazione circoscritta.”
La “regionalizzazione” dell’economia italiana. A tale proposito VILLA 1994.
Ovviamente ci si riferisce alle produzioni locali e alle imitazioni. Per quanto riguarda la sigillata africana di importazione C e D si rimanda alle valutazioni sul fenomeno date da TORTORELLA,1998, del quale si sottolinea l’importanza della raccolta della bibliografia su questa classe ceramica dal 450/460 al VII secolo ( Appendice 1 ) e a ZANINI 2003
FONTANA 1998, TORTORELLA 1998, MASSA 1998, ZANINI 2003
CALZOLARI , 1986, pp. 62-68 e BOSIO ,1970.
BASSO , 1986, p. 154
Carta Archeologica del Veneto
Carta Archeologica del Veneto
Il problema del riconoscimento della pars rustica in superficie trova conferma se si osservano i dati di scavo di questi ambienti DALL’AGLIO 1994, pp. 154-155.
SAGGIORO 2004, p. 514
SAGGIORO 2001
Un’analisi in tale direzione potrà essere portata a termine in un momento successivo.
Una tendenza simille è riscontrata a nord del vicus di Ostiglia, presso i confini con il Mantovano e lungo le idrovie e i principali assi viari . SAGGIORO 2004 pag 514-515
Media della quota dei siti di epoca romana.
Calzolari individua alcuni possibili allineamenti a sinistra del Tartaro tra Gazzo e Nogara, ma tali tracce non hanno avuto conferma.
Si ricordi che lo sfruttamento delle risorse delle aree paludose era facilitato in epoca romana dall’assenza della malaria.
SAGGIORO 2004, CALZOLARI 1986-1989
MANCASSOLA SAGGIORO 2000, pag. 323
Per una recente riflessione NEGRELLI 2002
MANCASSOLA SAGGIORO 2000, pag. 323 nota 113
Non è possibile distinguere tra un ampliamento o una riduzione delle strutture abitative dall’epoca romana a quella tardoantica e quindi non è possibile dare un’esatta definizione del tipo di frequentazione tra III e V secolo d.C. .
FRANCOVICH VALENTI 2000 (The relationship between surface and sub-surface archaeology; from survey to excavation: settlement and the circulation of pottery between the 5th to the 11th centuries in tuscany), SAGGIORO 2003a
VALENTI 1993 pag. 180
Per confronti e spunti circa l’interpretazione si rimanda a BROGIOLO 1994. In particolare ai contributi di G.P.Brogiolo pp.109-112, M. C. dall’Aglio pp.149-156 e M. Valenti pp.180-186.
Forse finalizzata al recupero di materiali. Questo trova conferma nei frammenti di laterizi e altri materiali fittili rinvenuti nelle UT 212 e 820.
.BROGIOLO, CHAVARRIA ARNAU 2005, pag. 51
ROSSIGNI pag. 72,73 ( Alcuni documenti inediti fino all’anno Mille – Parte Seconda – in Studi Storici Luigi Simeoni Vol. XI 1990 Verona – Istituto per gli studi storici veronesi )
Per riflessioni sull’ambiente nel medioevo FUMAGALLI 1992 e CASTAGNETTI 1977
Monumenta Germanicae Historica pag. 388 ( Diplomatum regum et imperatorum germaniae Tomus III. Heinrici II. ) , MGH pag. 133 ( Diplomatum regum et imperatorum germaniae Tomus IV. Conradi II. ) e MGH pag. 264 ( Diplomatum regum et imperatorum germaniae Tomus V. Heinrici III. ) 1957 Berlino
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